I Green Day sono la più grande punk band di sempre? Numeri di vendite alla mano, la risposta sembrerebbe essere proprio sì. Poi certo, se si pensa all’importanza storica, all’attitudine, al do it yourself e chi più ne ha più ne metta, il discorso cambia totalmente. In ogni caso, è giusto parlare ancora dei Green Day nel 2024?

Nato a Berkeley trentotto anni fa, il trio californiano ha avuto un grande e innegabile merito: rendere il punk appetibile ai ragazzini di qualsiasi ceto sociale e con qualsiasi storia umana alle spalle. Dopo due album di rodaggio (“39/Smooth” del 1990 e “Kerplunk” dell’anno successivo), “Dookie” (trent’anni quest’anno) è infatti uno di quei dischi su cui costruirci una carriera. Qui il punk c’è ancora tutto, in più ci sono le canzoni (chi non conosce pezzi come Basket Case, She, When I Come Around?) e un’immagine fra il romantico e il demenziale che ha fatto innamorare milioni di giovani in tutto il mondo.

 

 

Con “Insomniac” e “Nimrod” la band cerca di ricalcare la stessa formula aggiungendo qualche piccola novità (come scordare la ballatona strappalacrime Good Riddance?), il successo rimane ma il tutto comincia a risultare un po’ monotono. Giunge quindi il nuovo millennio e con esso l’album più amato/disprezzato dai fans: “Warning” cambia le carte in tavola aggiornando il sound in senso acustico-cantautorale. È un album di grandissima bellezza, ma all’epoca diventa il primo disco dei Green Day a non raggiungere le cifre di vendita fino ad allora ottenute.

 

 

Nel 2004 i Green Day hanno ormai una media di trent’anni, suonano da venti, sono sulla cresta dell’onda da dieci. Che sia già l’ora di abbandonare le scene? La risposta è forte e decisa. Con l’uscita di “American Idiot” danno forma allo stadium-punk-rock, con conseguente perdita degli ascoltatori più duri e puri e la contemporanea nascita di un mito che li fa entrare direttamente nell’Olimpo del rock mondiale. U2, AC/DC, Oasis? I Green Day sono ormai lì al loro fianco. Se “American Idiot” gode di un’effettiva classe cristallina, i successori però iniziano a perdere di mordente. “21st Century Breakdown” è una copia sbiadita del precedente capolavoro, “¡Uno!”, “¡Dos!” e “¡Tres!” il troppo che stroppia, “Revolution Radio” la copia della copia dello stadium-punk di ormai un decennio prima, “Father of All Motherfuckers” l’azzardo garage riuscito poco o per niente.

 

 

È il 2020. Che i Green Day stavolta siano morti davvero? Quattro anni senza alcuna pubblicazione sembrerebbero parlare da soli, se non che verso la fine dello scorso anno le pubblicità via social e ogni altro media iniziano a urlare all’impazzata il ritorno in grande stile di Billie Joe, Mike Dirnt e Tré Cool. Settimana scorsa, dopo qualche singolo, è quindi uscito il nuovo, quattrodicesimo lavoro in studio della band. “Saviors” è un disco ruffiano, difficile non volergli bene. Nelle quindici tracce in scaletta ritroviamo infatti i fasti delle due epoche d’oro del gruppo.

The American Dream Is Killing Me è la nuova American Idiot con tanto di intermezzo d’archi che riporta alla mente il punk, quello vero, dei Sex Pistols di Who Killed Bambi? Look Ma, No Brains sembra provenire dritta dritta dall’annus domini 1994, Bobby Sox mescola le tematiche dei Replacements di Androgynous al sound dei migliori Pixies, ed è semplicemente un pezzo da novanta nella discografia dei Nostri. Dilemma importa le Ronettes e le loro celestiali melodie nel nuovo millennio infarcite con un bel po’ di chitarre elettriche, Strange Days Are Here to Stay ha quell’intro di solo pall mute che fa venire in mente ricordi meravigliosi, Father To A Son è la ballata perfetta con tanto di finale rubato ai Beatles di Hey Jude.

Che hanno combinato quindi i Green Day? Hanno semplicemente preso il meglio di loro stessi, sia dal periodo più genuino sia da quello più commerciale, e per la prima volta da un bel po’ di tempo hanno ritrovato anche la loro innegabile bravura nello scrivere le canzoni. Si sono arruffianati ancora una volta il loro pubblico, non inventando niente e senza particolare coraggio… Ma, seriamente, chiedereste di più a tre musicisti ultracinquantenni? Bravi ruffiani!

Andrea Manenti

 

Foto di copertina: Alice Baxley