Bruce Springsteen non ha ovviamente bisogno di presentazioni. Per questo motivo inizierò la recensione in un modo abbastanza atipico, con la descrizione di quello che almeno ad un primo ascolto risulta il momento qualitativamente più scarso dell’intero album. There Goes My Miracle usufruisce di una batteria elettronica nelle strofe, di un controcanto quasi imbarazzante nel ritornello ed è l’unico brano dall’arrangiamento classicamente pop rock in scaletta. Nonostante ciò, ha due grosse qualità: l’epicità tipica di Springsteen e l’estrema orecchiabilità che vi farà cantare il pezzo a squarciagola sotto la doccia già dopo il secondo ascolto.
Ecco: quello che di primo acchito sembrava essere un episodio nettamente minore del cantautore nordamericano si rivela essere un brano standard della produzione fine anni Novanta delle nostre due più grandi rockstar. Cosa differenzia quindi il boss da un Vasco Rossi o un Ligabue? Credo che la risposta esatta sia il coraggio di spogliarsi, l’intimità. La maggior conquista dello Springsteen più maturo è stata infatti la necessità di non essere sempre e comunque l’eroe osannato al centro di uno stadio, ma a volte anche l’uomo comune con le sue difficoltà, i sogni, le piccole emozioni. “Western Stars” fa parte di una carriera parallela che il rocker ha messo in atto già nel lontano 1982 con quel capolavoro scarno che fu “Nebraska” e continuata con album come “The Ghost of Tom Joad” del 1995 e “Devils and Dust” di dieci anni dopo.
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In “Western Stars” non troviamo però soltanto storie raccontate con il solo ausilio di strumenti acustici, ma anche un amore relativamente recente per le orchestrazioni cinematografiche, il quale rende quest’ultimo tassello di carriera una proiezione intima e contemporaneamente esaltante dei grandi spazi aperti americani. Ci sono quindi i piccoli grandi eroi tipici della cultura statunitense quale lo stuntman di Drive Fast, la costante del mito del viaggio in un brano come Tucson Train, l’iconicità di un luogo di culto a stelle e strisce nella conclusiva Moonlight Motel, la danza provinciale di Sleepy Joe’s Cafe.
Ci sono poi grandi ballad come l’iniziale Hitch Hikin’, la title track, Chasin’ Wild Horses o Somewhere North of Nashville. C’è anche il basso country di Hello Sunshine, che sembra far rivivere un altro mito dell’uomo comune americano, Johnny Cash. C’è un autore che a settant’anni è ancora a suo completo agio. Ci sono belle canzoni. C’è il boss della musica statunitense e tanto basta.
Andrea Manenti
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Mi racconto in una frase: insegno, imparo, ascolto, suono
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica: feste estive (per chiunque), Latteria Molloy (per le realtà medio-piccole), Fabrique (per le realtà medio-grosse)
Il primo disco che ho comprato: Genesis “…Calling All Stations…” (in verità me l’ero fatto regalare innamorato della canzone “Congo”, avevo dieci anni)
Il primo disco che avrei voluto comprare: The Clash “London Calling” (se non erro i Clash arrivarono ad inizio superiori…)
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: adoro Batman