will butler

Il concept di “Generations”

“La musica non può che riflettere quello che accade intorno a noi”. Questa non è solo una di quelle citazioni appioppate a Jim Morrison nell’era social, ma è anche e soprattutto l’estratto di un’intervista contenuta in “When You’re Strange”, il documentario sui Doors scritto e diretto da Tom DiCillo.

Questo concetto è da sempre un’imprescindibile fonte di ispirazione per gli artisti, sulla base del quale ognuno sviluppa la propria arte in relazione alla propria personalità e al messaggio che vuole mandare. Non c’è dubbio sul fatto che ogni “generazione musicale” abbia conosciuto artisti che si sono presi carico di un arduo compito: aprirsi ai temi in larga scala, narrare storie personali destinate a diventare generazionali o ancora, più in generale, descrivere i conflitti e le problematiche della società che vivono.

Uno di questi è sicuramente Will Butler, fratello di Win e fondatore insieme a quest’ultimo degli Arcade Fire. Will è recentemente tornato sulle scene con il suo progetto da solista dopo il lavoro di debutto “Policy” del 2015, pubblicando su Merge Records il nuovo album “Generations”. Il titolo del disco evoca non solo la tradizione musicale della famiglia Butler, ma fa anche riferimento alla fase che sta attraversando l’artista, la cosiddetta mezza età che caratterizza il passaggio dai trenta ai quaranta, diviso tra la crescita dei tre figli, la musica e la laurea ad Harvard.

Butler si ritrova quindi nel mezzo di due generazioni. In questo disco si rivolge a entrambe, esprimendo la necessità di sfogare il proprio disagio nel vivere questo momento personale e storico. Il concept dell’album è infatti caratterizzato da due facce, che poi convergono nella personalità artistica di Will: la volontà di affrontare il particolare periodo che stiamo vivendo (politiche nazionali e internazionali, economiche e sociali) e le piccole storie quotidiane e personali, ma anche i rapporti interpersonali e le storie più intime, quindi l’interazione tra questi due temi.

A differenza dell’album di debutto, che si presenta come una “collezione di vari racconti indipendenti” sviluppati attraverso diversi personaggi, “Generations” ha la forma di un grande “romanzo” (al cui interno certamente ci sono varie altre storie) con un grande filo conduttore, all’interno del quale l’artista instaura una conversazione con il mondo che si sta muovendo, avviando una riflessione sui nostri tempi che si conclude con più domande che risposte. Un album che tocca vari argomenti, stati d’animo e diverse corde, passando da un umore all’altro all’interno dello stesso brano.

 

I brani

La varietà degli arrangiamenti permette a Will Butler di giocare in maniera coerente con i testi, che appunto insieme alla musica alternano in modo quasi “teatrale” passaggi più chiari a momenti più oscuri, utilizzando sempre un approccio ironico, fondamentale per la sua scrittura.

Per quanto riguarda la produzione musicale c’è sicuramente continuità tra il progetto da solista di Will e quello della band. Un esempio è il “call-and-response”, presente già nei lavori targati Arcade Fire, ma soprattutto nei canti che in casa Butler erano all’ordine del giorno. Un dialogo che si sviluppa in tutto l’album tra Will e le voci femminili di Sara Dobbs e Jenny e Julie Shore.

Ad aprire il disco è Outta Here, brano che ci incanala subito nel mood dell’album: “Ne ho abbastanza… ho cose migliori dentro di me! Me ne vado di qui, dove sto andando? Non lo so, non sono nemmeno sicuro che lo saprò quando arriverò lì”. Il brano inizia con un leggero synth cupo, sotto un cantato apparentemente fragile. Quando entra il beat insieme a una progressione di accordi classica ma efficace, il brano prende forza e si definisce attraverso la melodia che si fissa in mente.

In Close your eyes assistiamo a un contrasto tra il testo e la musica. Quest’ultima, attraverso l’uso di archi/cori mellotron (già sperimentati in Sprawl II con gli Arcade Fire), veste il brano con un’impronta power-pop. Il testo invece spezza il ritmo descrivendo in maniera diretta una sensazione di disagio: la consapevolezza di non vivere tempi ottimi, ma anche l’incapacità di trovare l’entusiasmo per arrivare a possibili soluzioni che cambino veramente le cose. Un disagio dovuto quindi al senso di impotenza provato di fronte a un mondo complesso e fuori controllo, come viene cantato nel brano I Don’t Know What I Don’t Know, che ci riporta ad atmosfere meno solari con una composizione piuttosto dark, guidata da synth e bassi distorti.

Surrender, pubblicata come primo singolo, rappresenta uno dei poli del disco. Il brano ci porta verso un’atmosfera più positiva e verso suoni sicuramente familiari ai vecchi fan degli Arcade Fire. Qui abbiamo l’esempio più significativo del call-and-response, in questo caso con un coro dal sapore soul contrapposto al falsetto di Will, il quale suona chitarra, bassi e synth. La batteria è invece affidata a Miles Francis, che ha aiutato lo stesso Butler (insieme a Julie Shore) a registrare il disco nel suo appartamento a Brooklyn. La canzone è mascherata da canzone d’amore, ma parla più di amicizia, circa la confusione che nasce quando le persone e i punti di vista cambiano: relazioni che a volte vorremmo lasciare andare e che stanno per concludersi, ma che sono bloccate dentro di noi per sempre.

Not Gonna Die riprende il tema affrontato in Close your eyes e I Don’t Know What I Don’t Know: il senso di impotenza di fronte a un mondo che ti dice che il diverso ti farà prima o poi del male. La canzone è infatti ispirata alla strage del Bataclan e accusa un certo tipo politica ormai molto diffusa: quella che sfrutta la paura della gente. Nello specifico fa riferimento al periodo di fine 2015 durante le presidenziali americane, in cui si parlava di proteggere i confini nazionali e si cercava di giustificarlo con ragioni basate sulla sicurezza. Il brano potrebbe essere una ballata, che però si trasforma poco dopo in una cavalcata contagiosa nel ritmo e nella melodia sferzata dalle tastiere e i sax di Matt Bauder e Stuart Bogie.

L’album termina con Fine, dove confluiscono un po’ tutti i temi e i pensieri trattati negli altri brani. Qui il testo ha un evidente approccio ironico, più che nel resto del disco, ma senza comunque risultare distaccato: Will riesce così a trattare argomenti più impegnati in un modo profano e talvolta anche stupido, ma che sia onesto e alla fine trascendente. Accompagnato da un’atmosfera a metà strada fra il blues e lo swing, il brano descrive un dialogo immaginario con George Washington e illustra il privilegio d’essere nato in una famiglia bianca, mischia i piani della realtà e dell’irrealtà, la storia del Paese e le storie personali dell’artista, che racconta in maniera accurata anche le sue origini e la storia della tradizione musicale della sua famiglia.

Giuseppe Maltese