Milano, 15 dicembre 2022

Ho visto per la prima i Viagra Boys dal vivo al BBK Festival di Bilbao. Era l’ormai lontano 2019, tour di “Street Worms”, il loro primo LP. Poi li ho rivisti questa estate al Base di Milano. Era un concerto gratuito, ma per pochi intimi. Nel senso che lo spazio era ridotto e per partecipare era necessario prenotarsi. Serviva la botta di culo, insomma, e l’ho avuta. Al Fabrique, quindi, è stata la mia terza volta al cospetto della band svedese. Perfetto. Si dice che tre indizi fanno una prova. Tecnicamente non è proprio così, è solo un modo di dire. Ma in questo caso la famosa espressione di Agatha Christie ha trovato ampio riscontro. Uscendo dal locale a fine concerto, infatti, sono giunto a questa storica conclusione: su disco i Viagra Boys mi piacciono, ma non mi conquistano. «Vincono, ma non convincono», come diceva il buon Giorgio Tosatti. Ma dal vivo, figli miei, sono una bomba atomica.

Ho pensato questa cosa mentre mi avviavo al parcheggio. Ero senza ombrello. La pioggia mi impregnava il cappellino. L’aria gelida mi fissava il sudore al torace, tipo patina di brina. Sì perché sotto il palco, come si può immaginare, c’era parecchio movimento. Non era proprio pogo, ma voglia di qualcosa di bello. Una danza divertita e scomposta per chiudere l’anno in bellezza (e fradici). Certo, gli spintoni non mancavano, ma prevaleva il sorriso. A un certo punto stavo per inciampare in un filotto di persone sedute a terra che fingevano di vogare durante Sports. Ok.

I catalizzatori di tanta goliardia sono due. Il primo, naturalmente, è il cantante Sebastian Murphy. Un leader che fa dell’autoironia il suo marchio di fabbrica. Un ragazzo di 32 anni che ne dimostra almeno 10 in più. Quando è entrato in scena, indossava una tuta in acetato e gli occhiali da sole. Ormai una divisa, ma è durata molto poco. Il tempo di portare a termine il primo brano, Ain’t No Thief, e Murphy si è liberato della felpa. Via tutto. D’altronde il pancione tatuato fa parte del suo personaggio. Esibirlo con orgoglio è la specialità della casa. Portarlo in giro per il palco, pure, ma meglio se con una birra in mano. Il risultato in quel caso è assicurato. Mentre improvvisava i suoi balletti scomposti, che più che balli sono passeggiate al rallentatore con il bacino a tagliare il traguardo, gli occhi degli spettatori erano tutti per lui.

Il secondo catalizzatore di buoni sentimenti è il sassofonista Oskar Carls, in mutande e smanicato di jeans, un’uniforme anche per lui. Ma a differenza di Murphy, Carls è praticamente immobile, piantato alla sinistra del palco con le gambe nude divaricate e le mani appese allo strumento. Per aizzare la folla gli basta uno sguardo. Qualcosa a metà strada tra lo strafottente e l’ammicco. Dopo una mezz’ora di concerto si è addirittura ritagliato cinque minuti di assolo free jazz, con tanto di faro puntato addosso e pubblico in religioso silenzio.

Il resto della band ha macinato i chilometri nel suo tipico e ostinato elettro-punk tendente al danzereccio. Una formula non certo nuova, che tuttavia distingue i Viagra Boys dagli altri gruppi dell’ultima ondata. La ripetitività dei suoni e dello spoken word la fanno da padrone. Ma mentre su disco, alla lunga, questa reiterazione porta a una certa monotonia, dal vivo, come detto, ha un impatto decisamente diverso e migliore. Nella versione più distesa e strascicata proposta on stage, i ritmi ossessivi sorretti dal basso deflagrano spesso nel motorik, sfiorando quasi la psichedelia. Il risultato è appagante e straniante al tempo stesso. Una dimensione del caos che ben si addice a una party-band come quella svedese.

In scaletta al Fabrique c’erano praticamente tutti i brani dell’ultimo album “Cave World”. Qualcosa dal già citato “Street Worms” e soltanto un pezzo (vado a memoria) dal celebrato “Welfare Jazz” del 2021. Punk Rock Loser e Big Boy hanno già un posto nel cuore dei fan, ma a trainare il pubblico verso la transenna è stata Troglodyte, citazione lampante di Girl U Want dei numi tutelari DevoReturn To Monke, prima traccia delle tre eseguite nell’encore, ha vinto la palma per il pezzo più teso della serata. Impagabile l’abbuffata finale di Research Chemicals. Tiratissima, rabbiosa e portata alle sue estreme conseguenze cosmiche, con la bassista delle Vulkano (la band d’apertura, voto 5) prestata alla seconda chitarra.

Quello di Milano è stato l’ultimo concerto dell’anno dei Viagra Boys, e probabilmente anche il nostro (no, non andremo in piazza a sentire Gigi D’Alessio). Direi una degna chiusura per una stagione concertistica che è finalmente ri-decollata. O almeno così sembra agli occhi dello spettatore. Un consiglio: non perdetevi lo spettacolo di questi cinque sciroppati la prossima volta che passeranno dalle nostre parti. Non fatelo. Buon anno.

Paolo

 

Il video è di Kill Billiz