Torino è l’ultima città in cui vorresti essere a fine agosto. C’è caldo, ci sono le zanzare, è in Piemonte. Ma dal 26 al 28 c’è il Todays Festival e basta dare un’occhiata veloce alla line-up per convincerti ad andarci. Ti si profilano dunque due alternative: rientrare qualche giorno prima dalle vacanze o farti odiare da tutto l’ufficio e prenderti un giorno di ferie in più. Per una strana coincidenza astrale ho fatto entrambe le cose, ma per Mac DeMarco questo e altro.
 
Il mio amore per Mac è recente ma totalizzante ed è pienamente condiviso con la mia best friend. Mac è bravo, è simpatico, ha un sorriso adorabile e scrive canzoni d’amore per la sua fidanzata. In pratica, è il ragazzo che tutte vorrebbero. Forse è per questo che ci siamo accorte della presenza di PJ Harvey solo dopo aver letto il suo nome sui nostri biglietti. Be’ buon per noi.
 
Il Todays trasforma per tre giorni la periferia della città in una specie di meta di pellegrinaggio per gli appassionati di musica indipendente. Già alle 19, la fila per entrare allo Spazio 211 è lunghissima. Nell’aria aleggia odore di Autan. “Dentro” sembra ci sia ancora poca gente, ma bastano pochi attimi e lo spazio intorno a noi si riempie. Sul palco si materializza la figurina in nero di PJ Harvey, accompagnata da una decina di musicisti. Il repertorio mescola vecchio e nuovo, tutto eseguito alla perfezione: un grande spettacolo il cui elemento catalizzatore è, ovviamente, PJ. Stanno tutti assorti ad ascoltare e gli applausi si sprecano alla fine di ogni brano. Sembra quasi di stare a teatro.
 

Quando PJ Harvey e la sua folta band escono di scena, si nota un ricambio generazionale tra il pubblico. Mentre ci facciamo strada tra le prime file, ci accorgiamo che siamo circondate da ragazzine esaltate e adolescenti con i brufoli. Ma vabbè. Mac sale sul palco insieme ai quattro ragazzi che suoneranno insieme a lui (chiamarli musicisti è eccessivo) e ad una scorta inesauribile di sigarette per un sound check infinito. Finalmente partono le prime note di On the Level: si comincia.

Mac DeMarco è così come lo raccontano: divertente, romantico, coinvolgente. Ci mette un sacco di amore in tutto quello che fa. Sorride mentre suona, mima le sue canzoni. Cantiamo tutti insieme a lui: lo adoriamo. Ha pure reinterpretato il grandissimo pezzo dance anni Novanta Gipsy Woman dei Crystal Waters. Fantastico. Peccato che la magia duri poco: dopo un’ora è tutto finito. C’è ancora qualcosa in programma al Todays ma poco importa, meglio andarsene via canticchiando il là là là là di Salad Days.

di Laura Musumarra

 

Day #2
Richard Ashcroft e i Verve hanno segnato un periodo ben preciso della mia vita. Quello del “tutto è possibile”, dello slancio adolescenziale, dell’inevitabile scontro generazionale. Uno scontro che per me, come per molti a quell’età, fu piuttosto la ricerca di uno schianto. Fiondarsi anziché attendere. Una corsa al galoppo, a muso duro e briglia sciolta. Con in testa l’idea ottusa di conquistare una meta che nemmeno io conoscevo. Con queste premesse, il video di Bitter Sweet Symphony divenne ben presto l’esempio da seguire. Camminavo per le strade della città fissando un punto in lontananza. Non deviavo mai il mio percorso. Andavo dritto, le Doctor Martens ben strette alle caviglie. Cercavo l’impatto sui passanti, la spallata, il piede calpestato a un turista giapponese. Volevo essere me stesso, ma imitavo un idolo.

L’idolo questa sera salirà sul palco del Todays Festival di Torino. Un concerto che ho atteso tanto. Prima di lui, però (e mi si perdoni come sempre il gioco di parole), c’è Giorgio Poi. Il musicista romano, onnipresente ai festival estivi, è ormai una certezza. L’ho visto talmente tante volte da accorgermi che nelle ultime settimane è stato dal parrucchiere a farsi dare una spuntatina. A chi non l’avesse mai ascoltato (in pochi, credo) consiglio di dargli una chance.

Sul calare della sera il testimone passa a Perfume Genius, fenomeno indie-pop, barocco e sufficientemente glam, fresco dell’uscita del suo quarto album. Mike Hadreas, questo il vero nome dell’artista statunitense, è protagonista di un’esibizione intensa e ispirata, purtroppo macchiata da un episodio che rischia di rovinare la serata. Qualcuno dal pubblico, infatti, lancia insulti omofobi al suo indirizzo. Lui risponde a tono e mette tutti a tacere con la musica. Meglio così.

Ma ecco arrivato il momento per cui oggi, 26 agosto 2017, è cosa buona e giusta stare in piedi sul pratino dello Spazio 211. Sono passati vent’anni da allora, venti lunghi anni. Ma lui, l’idolo, ha resistito al cambiamento. Il brit-pop è morto e sepolto. Qualcuno ha provato a rinverdirlo senza grossi risultati. Le vecchie glorie si sono rimesse in gioco. Charlatans, Ride, lo stesso Liam Gallagher. Ritorni più o meno fortunati. «Lazzaro, alzati e cammina», sembra urlare la folla. E dal backstage del Todays, come da un sepolcro, compare un Richard Ashcroft rigenerato. Tolte le bende e il sudario in cui è rimasto avvolto per anni, l’ex leader dei Verve si è presentato sul palco con una giacchetta arancione di dubbio gusto e la camicia aperta sul davanti. La testa rasata («Dove sono i tuoi boccoli?», grida una ragazza dietro di me), gli occhiali da sole a coprire le rughe e la stessa strafottenza che lo ha sempre contraddistinto.

La scaletta alterna le hit della carriera solista (Break the Night with Colour, A song for the Lovers, Music is Power) ad autentiche staffilate al cuore. Quando parte Sonnet è difficile trattenere il magone. Space in Time coglie tutti di sorpresa. La voce di Richard, la migliore del brit-pop tutto, è ancora quella di un tempo. Lucky Man e una commovente The Drugs don’t Work sciolgono la platea in abbracci multipli. È un tripudio di ricordi, di feste pomeridiane in cui ci si travestiva da inglesi, con la felpa dell’Adidas e le Gazzelle ai piedi; di musicassette riavvolte con la matita Faber-Castell; di video registrati in Vhs da Mtv, con l’indice puntato sullo “stop”, pronto a schiacciare prima che ricomparisse il faccione di Andrea Pezzi.

Tra quelle registrazioni, che ormai giacciono impolverate su uno scaffale della mia cameretta, c’era anche Bitter Sweet Symphony. Ashcroft chiude il concerto di Torino con il suo cavallo di battaglia. Alle prime sviolinate la mente torna in un istante a quei pomeriggi passati a scimmiottarlo, guarda caso, proprio in via Torino. Lo prendo come un segno del destino, un cerchio che si chiude. L’idolo, ai miei nuovi occhi da persona adulta, appare per quello che è realmente: un grande musicista. Il marciapiede non è più terreno di scontro, ma una strada da percorrere con il senno di poi. Il ragazzino in cerca di uno schianto è atterrato tutto intero. È diventato finalmente grande.

di Paolo Ferrari

 

Day #3
Il terzo è il giorno dei The Shins e Band of Horses. Perdonatemi la citazione alta: «Il terzo giorno l’indie rock è resuscitato». Il redivivo James Mercier, dopo anni di divagazioni electro-pop (Broken Bells) si è finalmente deciso a riportare sul palco il suo primo amore, creatura arcangela di questo genere e pietra miliare dei primi 2000. Torino, terra del bìcerin. Quale cornice migliore per il primo concerto italiano della storia di questa? Torino, nota per il buongusto auricolare, risponde meravigliosamente, il parco di Via Cigna 211 è gremito di testoline attente in trepida attesa. E così, dopo aver deglutito senza troppe storie gli antipasti cantauto-ruock all’italiana (Laszlo, Gomma), la salivazione inizia sensibilmente ad aumetare con il live del canadese Taylor Kirk, aka Timber Timbre. Viene servito un carpaccio d’alce à la Lynch, nervoso come il Funk, triste come il Blues a tratti fuori fuoco, come sa essere una vecchia pizza di Russ Mayer e poco altro.

Alle 21.15 puntali salgono sul palco gli Shins e rompono un silenzio assordante con Caring is Creepy. Sento le lacrime sgorgare non tanto per l’emozione quanto per la pena che provo per Jason Mercier, che non riesce a imbroccare una nota nemmeno a piangere in cirillico. Il raglio continuerà per le prime tre canzoni, il tempo necessario per un riscaldamento vocale adeguato alle tonalità dei brani d’esordio, non troppo furbamente posizionati a inizio scaletta
Sentite pure se avete il coraggio, ma se siete fan, fan, non fatelo.

Il concerto prende il volo piano piano e si rivela una piacevolissima passeggiata nella radura delle meraviglie dei primi 2000. Jason ci porta a spasso per il suo “Inverted World” con pezzoni come Girl Inform me e News Slang. Ci si infratta senza troppe menate nei sentierini di “Chutes Too Narrow” con Kissing the Lipless e Saint Simon. Piano piano affiorano persino nuove gemme, come la preziosa The Fear accompagnata deliziosamente da un sapiente quartetto d’archi in un crescendo da brivido.

Alle 23 tocca ai Band of Horses, l’onere e l’onore di chiudere i battenti di questa tre giorni torinese. Ben Bridwell fa decollare una First Song (in fabula) seduto alla sua steel-guitar. L’impatto è potentissimo, la band mostra i muscoli sin dal primo pezzo, dominando il palco a colpi di schitarrate per oltre un’ora di live rock-folk di altissimo livello. La resa è rasente alla perfezione. La ricetta di Neil Young con la salsa dei Buit to Spill/Modest Mouse. Ricetta vincente per farti esplodere il gusto tra le gengive. E butti giù tutto, muto come un pesce. Giù il gasolio di St.Augustine, l’asfalto di Laredo, giù le polaroid del Great Salt Lake, i sorrisi di circostanza e il senso di vuoto che solo certi Compliments sanno offrire, giù e su la nausea di Throw My Mess, lo sballo vorticoso di Weed Party, le paure fottute di Is there a Ghost e giù, a terra questa volta, le lacrime versate per tenerti stretto al cuore un cazzo di ricordo fino al giorno che schiatterai. Funeral, risurrezioni, rivoluzioni croci sui cuori, temporali emotivi, cuori sulle croci.

di Tum Vecchio

 

Photo Gallery

(di Giulia Bartolini e Andrea Marchetti)