Se l’arte è urlo, la bocca che non emette voce rimanda all’afonia, alla drammatica e tragica fatalità di una comunicazione inesistente. Che per compiersi trova unica e sola ragione nelle mille forme della bellezza. Thom Yorke si è sganciato coraggiosamente dai suoi predecessori (Goblin) e insieme a Luca Guadagnino (regista, a sua volta per nulla appiattito sullo stile di Dario Argento) ha realizzato uno di quei sodalizi di cui ancora conserviamo l’effetto, come quei solchi che marcano con un segno nitido il nostro passaggio.  

Qui leggete la nostra recensione di Suspiria di Guadagnino.

L’estetica magmatica e talvolta baroccheggiante di “Suspiria” tinteggia i grigi di una Berlino fine ’70, che nei desiderata dello stesso leader e frontman dei Radiohead doveva ritagliare le immagini e le suggestioni della scena oltre Bowie, confermatissimo e vitale punto di non ritorno, ovvero il krautrock, i primi sintetizzatori e quell’incessante brulichio germinale di tanta roba di là da venire. Tutto il significato dell’opera risiede in questa campitura cromatica. Facevamo riferimento alla voce che non riesce a dire: delle molte tracce della colonna sonora solo cinque hanno nel canto l’accompagnamento mimetico al piano, accennato e delicatissimo che suona per sottrazione. Al centro una nenia melodica sulfurea, inquietante e sublime, a base di synth che all’ascoltatore restituisce il senso di un sacrificio necessario, e che non può essere ovviato (chi ha visto il film, capirà).

Le ombre che si affastellano nelle sale della scuola di ballo in cui si dispiegano le passioni e i sogni, gli incubi e i delitti delle ballerine, disegnano, dall’alto, un panorama di desolante perdizione, vero e proprio teatro di molteplici lotte per porzioni infinitesimali di potere.

L’odio che affiora dagli archi striduli di A Storm That Took Everything, testimonia la dissolvenza dopo l’illusione della bella melodia iniziale ed è come l’incipit di tutto quello che ascolteremo d’ora in poi: un’inafferrabile premessa di fronte alla quale il musicista sembra avvertirci della sua inutilità. Disseminate, riconoscibili solo a patto di volerne toccare i risvolti, gli angoli di una bellezza inesausta tracciano spigoli e punte, a reclamare l’esistenza di un possibile altro decorso.

Qui la performance live di Thom Yorke

Ma questo strano groviglio di forze contraddittorie non è conoscibile salvo abbracciare il concetto di mistero, nella sua accezione di dilatazione infinita del significato. Il mistero è conoscenza “per un salto nella procedura del conoscere”, come diceva il grande poeta Luzi, il quale sicuramente non pensava a “Suspiria” e a Thom Yorke, ma che possiamo prendere a prestito per dire che l’arte, il sublime atto artistico, quando esalta e distrugge le convinzioni di chi la fruisce, non evidenzia il perché della nostra attenta indagine. Piuttosto ci cambia senza logica razionale alcuna, proprio attraverso quel salto nella procedura che accresce il mistero e così la conoscenza. Thom Yorke, insomma, ha aperto la crepa di un muro ancora tutto da indagare, ma come sarebbe allargarne i contorni e farlo franare una volta per tutte? A Berlino è già successo, ma trent’anni fa.

Alberto Scuderi

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