EOB non è l’acronimo di un nuovo progetto della stazione spaziale internazionale. Più semplicemente, sono le iniziali di Ed O’Brien, un inglesotto di Oxford che ha appena compiuto 52 anni. Se questo nome non vi dice nulla, pensate ai Radiohead schierati su un palco. Al centro, naturalmente, c’è il buon Thom Yorke. Alla sua sinistra c’è il fido Jonny Greenwood, accartocciato come sempre sulla chitarra. Alle loro spalle c’è la sezione ritmica formata da Philip Selway e Colin Greenwood, e fin qui ci siamo. Ma ora puntate gli occhi sull’omone alla destra di Thom: ecco, lui è Ed O’Brien. Chitarrista, percussionista, seconda voce e molte altre cose. Insomma, una pedina fondamentale per una delle band più influenti del pianeta.
Chi non segue i Radiohead (siete matti da legare) probabilmente non si è mai accorto di lui. Le figure di Thom Yorke e Jonny Greeenwood, soprattutto, si prendono tutta la scena. O’Brien resta sempre in seconda linea, schivo e morigerato, ma non è certo una questione di minore qualità. Sarà piuttosto il carattere, oppure il ruolo di gregario di razza che ha preferito ritagliarsi negli anni. Tanto per darvi l’idea, qualche tempo fa, mentre i compagni di band sfornavano dischi solisti e collaborazioni a destra e a manca (tutti tranne Colin), il nostro uomo era arrivato addirittura a sostenere che “l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è un album di merda fatto da me”.
Poi qualcosa è cambiato. Qualcosa l’ha convinto a provarci. Ma ci sono voluti ben otto anni di lavorazione e continui ripensamenti. Era il 2012 quando i Radiohead rientrarono dal tour di “The King of Limbs”. O’Brien si trasferì con la famiglia in Brasile, e pare che l’aria sudamericana e il Carnevale di Rio l’abbiano letteralmente stregato. In effetti, come si fa a resistere a tutti quei colori? Francamente mi sembra impossibile. Ecco dunque l’ispirazione, la goccia che ha fatto traboccare dal vaso le otto tracce che compongono “Earth”.
Da quel momento O’Brien ha incominciato a limare la propria opera e a mettere insieme, per l’occasione, un cast di collaboratori di eccezionale livello. Parliamo dei batteristi Omar Hakim e Glenn Kotche dei Wilco, i bassisti Colin Greenwood e Nathan East, oltre al super produttore Flood, già alle prese con Depeche Mode, U2 e PJ Harvey. Niente male per un debutto solista.
E quindi? Cosa ne è uscito? Ne è uscito un disco molto buono (e ci mancherebbe altro, direte voi), a cavallo tra il rock e l’elettronica, a cui ci si affeziona nel giro di un paio di ascolti. Inutile negare che a un album del genere, in quanto side-project, ci si arriva percorrendo la strada già tracciata dalla band principale. Ma è proprio in questa prospettiva che “Earth” mostra il suo lato più interessante. Questo disco è infatti la dimostrazione lampante di quanto il gusto e il continuo lavorio di Ed O’Brien siano decisivi nella costruzione del marchio Radiohead. Potremmo quasi definirlo una rivincita, se non addirittura una vittoria.
Per rendersene conto, basta ascoltare il primo brano, Shangri-La, ma anche Banksters. E’ vero, nella voce di O’Brien c’è tanto Thom Yorke. Ma vi siete mai chiesti quanto O’Brien ci sia nelle melodie costruite da Thom Yorke? I quasi nove minuti di Brasil, accompagnati da un bel video diretto da Andrew Donoho, sono forse il manifesto di “Earth”. Alla prima parte acustica, in formato onirico, si sovrappone, quando meno te lo aspetti, una seconda parte elettronica dominata dalla cassa dritta e dal basso di Greenwood in modalità rave.
Qua e là O’Brien sfoga la sua voglia di chitarra rock, repressa ormai da 20 anni con l’avvento di “Kid A”. Tra gli episodi da segnalare ci sono la marcetta folk Deep Days e Long Time Coming, che pare quasi scritta da Badly Drawn Boy in stato di grazia. Convince meno Olympik, un’altra cavalcata di otto minuti, questa volta poco incisiva e troppo vicina agli U2 di “Pop”. Ma insomma, una battuta d’arresto ci sta. Anche perché a chiudere il disco arriva Cloak of the Night, secondo gioiellino folk cantato in coppia con Laura Marling.
In conclusione “Earth” si rivela una collezione di canzoni che può piacere (e parecchio) anche a chi non è un fan sfegatato dei Radiohead. Per intenderci, non è soltanto un prodotto per i “completisti” del gruppo inglese. E quindi, caro Ed, puoi stare davvero tranquillo. Il tuo non è certo “un album di merda”. Anzi: è un disco di cui il mondo, o comunque una parte di esso, aveva proprio bisogno.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.