L’abito non fa il monaco. Il famoso proverbio non si adatta assolutamente alla creatura Smashing Pumpkins. Basti dare un ascolto ai dischi recenti della band.

Billy Corgan non aveva ovviamente disimparato a scrivere belle canzoni (The Colour of Love, Birch Grove e Purple Blood nell’album “Cyr” del 2020, oppure Springtimes, Spellbinding, Beguiled ed Empires nel mastodontico triplo dello scorso anno “Atum”). Il problema di questi dischi era proprio la veste, eccessivamente eighties nel primo lavoro, troppo barocca e prog nel secondo.

“Aghori Mhori Mei”, invece, si riappropria del sound dei migliori Smashing Pumpkins, quelli dei nineties. Il nuovo album ha i riff hard rock di “Gish” (Edin, Sighommi, War Dreams Of Itself e Sicarus), le melodie pop di “Siamese Dream” (Pentagrams è un pezzo da greatest hits, oltre a Who Goes There, 999 e Goeth The Fall), le ballad orchestrali di “Mellon Collie and The Infinite Sadness” (Pentecost e la splendida conclusione di Murnau) e qualche synth fortunatamente mai invasivo. La durata è finalmente sensata, appena poco sotto i 45 minuti.

Tutto ciò fa di questo quattrodicesimo album in studio uno dei migliori della band di Chicago da tanto, forse troppo tempo. Il che è una goduria.

Andrea Manenti