Tre, due, uno: dimenticato
L’ottavo album dei dEUS è uscito un paio di mesi fa. Il disco ha interrotto un periodo di silenzio discografico durato oltre dieci anni. Più dei Verdena, per dire. E proprio come è avvenuto per la band bergamasca, il tempo trascorso avrebbe dovuto connotare quest’ultima pubblicazione di una certa importanza. Almeno per rispetto nei confronti di un gruppo che ha fatto la storia di un certo rock europeo. E invece? Invece sono bastati pochi giorni per relegare “How To Replace It” in un angolo. A due mesi di distanza, il disco giace ormai da tempo in un luogo buio e sconosciuto, dove difficilmente qualcuno andrà di nuovo a rovistare.
È triste scriverlo, ma anche al momento dell’uscita non è che questo disco abbia ottenuto chissà quali riscontri. Come si dice, è passato un po’ in sordina. Nelle recensioni che ho letto in giro, i dEUS si sono guadagnati qualche sufficienza risicata e nulla più. L’entusiasmo si è sbriciolato in un lampo sotto la ghigliottina della critica. Un vero peccato. Perché se vi prendete il tempo necessario, in barba alle più elementari regole social, scoprirete che “How To Replace It”, in realtà, è un album intenso, magari un po’ dimesso, ma decisamente interessante. Da assaporare lentamente.
Un progetto firmato Barman
Partiamo da un dato: si tratta di un disco complesso. Non in senso tecnico (i dEUS sono ottimi musicisti, ma non ci hanno mai abituato a particolari virtuosismi). È complesso, per così dire, in senso “architettonico”. Qui si assapora il frutto di un progetto lungo, ben costruito, e forse anche sofferto. Tom Barman, dopotutto, è noto per l’attenzione maniacale che mette in ogni singola composizione (“‘cause I’m the architect”, cit). Dalla scrittura agli arrangiamenti, il risultato rasenta come sempre la perfezione. Il tutto si risolve in dodici tracce stratifcate, corpose e ricche di dettagli mai scontati. Proprio come un palazzo disegnato da un archistar.
Difficile, per esempio, non apprezzare l’intensità della title-track: una marcia dai toni marziali che si arricchisce via via fino a esplodere nel finale. Stesso discorso per il tappeto di synth sul quale si crogiola Man Of The House, un episodio inedito nella trentennale carriera dei Nostri. Si dirà, forse, che queste canzoni non restano nella testa. Sarà anche vero, ve lo concedo, ma quando mai abbiamo preteso dai dEUS un ritornello a presa rapida? Suvvia, la band belga, per sua natura, produce in modo vorticoso e mai lineare. Guai se venisse meno il suo carattere intricato e multiforme.
Libertà di ispirazione
In questo disco, peraltro, il gruppo si limita a dare una spolverata alle atmosfere più recenti. Gli stravolgimenti sono pochi. Poi vada come vada, in base all’ispirazione. In generale, i richiami vanno per lo più agli ultimi due album. “Keep You Close”, ma soprattutto “Following Sea”. Canzoni come Faux Bamboo e Pirates sono lì a dimostrarlo. In fin dei conti la formazione entrata in studio per le sessioni di “How To Replace It” è la stessa che lavorò sul precedente disco (nel frattempo è tornato in pianta stabile il grande Mauro Pawlowki in sostituzione di Bruno De Groote).
Per i cultori di “The Ideal Crash”, però, c’è il singolo Must Have Been New, forse il brano più appiccicoso del disco, mentre i nostalgici delle svisate di “Worst Case Scenario” e “In A Bar Under The Sea” troveranno in Simple Pleasures una bella pagnotta da sgranocchiare. A prevalere, manca a dirlo, è sempre e comunque Tom Barman. Che questa volta, nell’uso della voce, prova a spingere maggiormente sui toni cupi alla Leonard Cohen, con un’occhiata agli ultimi The National (ascoltare 1989 per credere). Torna anche l’uso della lingua francese nella conclusiva Le Blues Polaire, che prova a ripetere il successo della stupenda Quatre Mains del 2012.
Un solo appunto
Il disco è elegante e maturo. Musica adulta per ascoltatori adulti. E forse questo, oltre che un pregio, è insieme anche l’unico difetto dell’album. Dalle trame costruite dai Nostri affiora a tratti un sound un tantino superato. Non dico fuori moda, ma un po’ troppo istituzionalizzato. I dEUS non hanno sicuramente alcun interesse a inseguire il trend del momento, ma è anche vero che un disco del genere risulta poco appetibile a chi vuole approcciarsi per la prima volta alla band belga. La durata stessa non aiuta i novelli ascoltatori, ormai più avvezzi all’idea di un singolo “mordi e fuggi” che all’ascolto ragionato di un’intera opera. Ma per godere appieno di un bel disco si dovrà pure soffrire un po’. E questo non può valere soltanto per i vecchi fan. Perciò dedicategli un paio di ascolti in più, se volete, e forse non ve ne pentirete.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.