Milano, 14 marzo 2024

Le corse in motorino con la chitarra in spalla. Quella panchina al parco, seduti in silenzio, un tappeto di mozziconi sotto i piedi. Oppure la cara e vecchia cameretta, lo sguardo appeso al soffitto o a quel poster che mai ti deciderai a togliere. Sono tanti, tantissimi i ricordi legati a “Catartica”, un disco che ha accompagnato i tormenti di almeno un paio di generazioni. Il titolo dice tutto, non serve spiegare. In quei momenti così privati, in quelle nostre divagazioni solitarie, accartocciati tra sogni e paure, lo avevamo sempre nelle cuffie.

Non c’è da sorprendersi, allora, quando un fiume di vecchi adepti inizia a riversarsi verso l’Alcatraz per regalare ai Marlene Kuntz il sold out che si meritano. Alle 21 la sala è già piena, l’atmosfera è quella delle grandi occasioni. Basta guardarsi attorno: nel raggio di dieci metri puoi incrociare volti familiari, compagni di classe che pensavi di aver dimenticato e che invece sono proprio lì, soltanto un po’ scavati dal tempo. Anche gli sconosciuti, in realtà, non sembrano del tutto estranei. Hanno la stessa espressione di chi ha vissuto quegli anni inquieti di rock alternativo italiano.

Cristiano Godano e soci guadagnano il palco in un bagno di folla. “Catartica” sarà eseguito quasi per intero (mancano all’appello Giù Giù Giù, Merry Christmas e Non Ti Scordo Più), ma non nell’ordine del disco. Si parte forte con Trasudamerica e si prosegue con Canzone Di Domani. Riccardo Tesio non esce mai dal metro quadro immaginario tracciato davanti alla sua spia. Se fosse per il contapassi, lo si darebbe a riposo o magari a tavola, davanti al camino. Ma il digitale è una bugia e la sua chitarra macina svisate noise tutt’altro che statiche.

Lo stesso vale per il pubblico, che incalza sotto il palco. Quando parte Aurora, il primo dei nove brani fuori menù, vedo un amico in lontananza che canta ad occhi chiusi. È già sudato fradicio, ha un sorriso amaro. Come da copione, la scaletta procede in crescendo pescando ancora qualche siluro da “Il Vile” e “Ho Ucciso Paranoia”. La magia dei Marlene Kuntz si ripete trent’anni dopo. La tensione elettrica è costante. I Sonic Youth restano nell’aria e le trame oscure dei primi tempi si stringono di nuovo attorno al gruppo. In questa versione live, però, “Catartica” e i suoi fratelli svelano anche la loro indole pop. Quel miscuglio tra melodia e rumore che ha fatto la fortuna dei piemontesi.

Micidiale la doppietta composta da Festa Mesta e Sonica. Due classici che ancora oggi restano saldamente ai vertici della classifica dei migliori inni alternative italiani. Brani così carichi di raucedine adolescenziale, così innervati di sporco nichilismo e dell’apatia tipica della provincia italiana, da trasformarsi in un indelebile manifesto programmatico. L’urlo liberatorio dei fan, “fragori nella mente, rumori, dolore, lampi, tuoni e saette, schianti di latte”, suona come una rivendicazione di appartenenza.

Sul finale arriva la seconda stilettata al cuore. Una stoccata in tre mosse che ti mette al tappeto prima ancora del gong. Come Stavamo Ieri prepara il campo di battaglia emotivo a un’Ape Regina pronta a pungere ancora. Poi subentra il rock acido di M.K., e allora non ce n’è più per nessuno. Con buona pace di Nuotando Nell’Aria, lievemente inflazionata ma sempre magnetica, questo è il vero apice del concerto. La chiusura è affidata a Bellezza, l’unico brano tratto dal repertorio post-Duemila.

La serata si conclude così, con un arrivederci che sa di belle speranze. Inutile negarlo, si è trattato di una celebrazione, di un compleanno speciale. Questo doveva essere e questo è stato. Il pubblico, dopotutto, non era qui per altro. L’effetto, però, è stato positivo. Nostalgia sì, ma senza quell’odore di cantina che spesso avvolge le operazioni di questo tipo. Come dire: è stato più un rito collettivo che la consegna di un oscar alla carriera. Senza fronzoli, senza troppi discorsi. E con il pensiero sempre rivolto al compianto Luca Bergia, al quale è dedicato l’intero tour.

Paolo