Fuori dall’hype, fuori dalle mode del momento. Fuori dai radar di chi si affida soltanto alle raffiche social. Sabrina Teitelbaum, in arte Blondshell, fa di tutto pur di non farsi notare. Ma quando la scopri, poco importa se per merito o per caso, ti ritrovi tra le mani un diamante grezzo da conservare con cura.
La sua storia meriterebbe un premio all’onestà intellettuale. È un inno al dietro front e al rinnovamento. Nata nel 1998 a New York, Sabrina cresce accanto al padre a Midtown Manhattan. Il Madison Square Garden è lì a due passi e all’età di 7 anni ci entra per la prima volta per vedere i Rolling Stones. Non un concerto qualsiasi, insomma, e infatti la piccola Sabrina inizia a farci più di un pensiero. Seguiranno anni di scrittura ed esercizio. Fino alla fine del liceo, quando la Nostra si trasferisce in California. Qui frequenta la Usc Thornton School of Music di Los Angeles. Base classica, jazz e Motown.
Così le cose iniziano a farsi serie e nel 2017 arriva la prima grande occasione. Sabrina debutta come professionista. Si fa chiamare BAUM. Scritto così, in capslock. È un progetto di belle speranze: pop tendente al soul, velleità radiofoniche. Raggiunge il suo apice con i singoli This Body (2018) e Fuckboy (2019). Sentiteveli, giusto per farvi un’idea. Non sono da buttare, per carità, c’è di molto peggio, ma nemmeno indimenticabili. Tanto che quelle canzoni, quell’immagine, e oserei dire l’intero progetto, a lungo andare, non convincono nemmeno lei. Sabrina, in quei panni, non si sente se stessa.
«Meglio l’indie-rock», pensa lei, e come darle torto? Qui il terreno è decisamente più fertile e la giovane artista si muove con maggiore disinvoltura. Il suo produttore, lo stesso di Yves Tumor, la incoraggia a proseguire su questa strada. E allora fuori le chitarre, i synth tornano in cantina. Via il bomber e le sneakers urban style, sì ai maglioni larghi e ai giubbini di jeans un po’ sgualciti. Ma attenzione. Le rivoluzioni, per essere ricordate, devono avere un nome. Allora BAUM si trasforma in Blondshell, scritto in minuscolo. Anzi, più che di una trasformazione si tratta davvero di un’altra identità. Di un nuovo inizio, una rinascita dopo un reset. Come a dire: «Ok ragazzi, ho sbagliato. Dimenticate tutto, si riparte da qui».
Si riparte da Blondshell, appunto. Vale a dire da un viaggio negli anni ’90 che va da Courtney Love a Hope Sandoval, passando per Jewel e Liz Phair. Il suono sporco della chitarra, unito alle atmosfere languide dei brani più riflessivi. A illuminare la nuova strada ci sono anche i Cramberries. Non a caso Blondshell propone spesso anche dal vivo una sua bella versione di Disappointment. Musica che in fin dei conti risulta addirittura più accessibile del pop annacquato che la Nostra proponeva nelle vecchie vesti.
Il disco omonimo uscito ad aprile per la Partisan Records è dunque il “secondo” esordio di Sabrina. Sicuramente il più sincero e giusto. Un lavoro in cui l’autrice non esita a mettersi a nudo per descrivere i suoi demoni interiori. Droga, alcol, relazioni tossiche. La vecchia vita di Sabrina, fatta soprattutto di dipendenze. Uno scontro interiore sfociato in nove brani sofferti ma immediati, che lasciano ben sperare per il futuro (questa volta per davvero).
Lo abbiamo detto. Intorno all’uscita di questo album non è stato “costruito” nulla. Nessuno si aspettava niente. Nessuno sapeva nemmeno che sarebbe stato pubblicato. È uscito e basta, senza tanto clamore. Ma grazie alla sua indubbia qualità, adesso Blondshell si sta facendo strada concerto dopo concerto. Merito anche di singoli ben calibrati, che lasciano il segno e puntano in profondità ad ogni ascolto. Come Veronica Mars, la traccia che apre il disco. Elettrica e tutta in salita. Olympus, che sembra uscita da “Live Through This” delle Hole. Oppure Sober Together, più intima e cadenzata, intensa più che mai.
Ben inteso, non si tratta di un capolavoro, ma è certamente un bel disco che vi consiglio di ascoltare. Blondshell, tra l’altro, regge benissimo anche dal vivo. Di fronte al pubblico del Primavera Sound, qualche settimana fa, ha fatto un’ottima figura, ve lo garantisco. La sua voce è fragile e potente al tempo stessso, come su disco e forse anche meglio. L’esibizione è schietta, genuina, senza fronzoli. Niente scenografia, niente visual. Solo una canottiera dei Pretenders, giusto per sottolineare l’appartenenza.
Nei suoi momenti migliori (Salad, Sepsis, oltre a quelle già citate) ha poco da invidiare alle più blasonate Phoebe Bridgers, Lucy Dacus e Julien Baker (loro sì, investite dall’hype), ma anche a Soccer Mommy o Snail Mail. La nostra Blondshell si è inserita in quel filone lì, non c’è dubbio, ma lo ha fatto in punta di piedi, in bello stile e con la consapevolezza di essersi lasciata alle spalle un’esperienza negativa. Per questo risulta più pura e più umana. Noi crediamo in lei.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.