Sarà che ho appena compiuto gli anni e sono in preda a una crisi di mezza età, sarà che alla fine per quanto non sia una grandissima fan mi piacciono – o comunque mi piacciono molto i loro alter ego più vecchi, i Mumford and Sons -, sarà che non voglio farmi prendere dallo sconforto per il freddo sceso su Milano all’improvviso, ma insomma finisce che lunedì 4 novembre mi trovo al concerto dei Lumineers all’Alcatraz.
Un sold out annunciato da tempo e un concerto iper atteso, come testimoniano la grande quantità di persone appostate alla ricerca di un biglietto e il parterre già ben affollato alle otto di sera. Sono un po’ in ritardo, e questo ritardo – maledetto sia quel tram bloccato – mi fa perdere circa metà di una delle ragioni cardine del mio essere qui stasera: l’opening di
Andrea Laszlo De Simone. Faccio in tempo a godermi tre o quattro canzoni, tra cui forse la mia preferita del suo folgorante disco d’esordio
“Uomo donna”,
La guerra dei baci. Laszlo and friends, come sempre, saturano il palco con il loro stile unico, oltre i tempi e oltre le mode, e la notevole qualità musicale che si portano appresso.
In pausa per il cambio palco, mi guardo un po’ attorno. Ok, decisamente sto alzando la media dell’età dei presenti, perlomeno quelli che affollano il parterre intorno a me. Ne ho la conferma sentendo volare parole come “ultimo esame”, “Erasmus” e “Pinguini Tattici Nucleari”. Davanti a me stazionano madre con figlia dall’Iphone coperto da un’agghiacciante cover con le orecchie di Minnie diamantate (di cui parleremo anche più avanti), dietro ho un gruppetto di laureande in Lingue, di lato una coppia di amici studenti appena rientrati da Budapest. Ok, non proprio il mio habitat, ma posso ancora mimetizzarmi, posso farcela.
Ma torniamo a noi. Arriva infatti il secondo atteso – almeno da me – opening della serata: quello dei Mighty Oaks. Il loro folk è un puro toccasana, la loro multiculturalità una boccata d’aria fresca nei tempi di “Io sono Giorgia!”: di stanza a Berlino, sono un americano, un italiano e un inglese (e non è una barzelletta). Ci hanno promesso di tornare in Italia nel 2020 con il nuovo album (anticipato dal singolo All Things Go, che ci hanno presentato live): non ce li faremo sfuggire.
Finito il loro turno, dopo una buona mezz’ora di attesa, ecco arrivare sul palco i king della serata: The Lumineers.
Il concerto è stato, oggettivamente, davvero potente. I Lumineers sono freschi ed entusiasti, sono praticamente tutti degli abili polistrumentisti, capaci di spostarsi dalla batteria alla chitarra alla tastiera con nonchalance. E se la voce è quella di Wesley Schultz (pulita, agile e impeccabile), che sul palco riesce anche a condividere aneddoti intimi creando grande empatia con il pubblico, il cuore pulsante della band se lo divide con il bretellato Jeremiah Fraites, principalmente batterista ma anche molto, molto altro.
In un’ora e mezza di live eseguono con precisione ed energia pezzi dal nuovo album “III” come Life in the City o la commovente It Wasn’t Easy to be Happy With You senza tralasciare i vecchi, infilando le loro super hit Ho Hey o Ophelia – i classiconi rispettivamente del primo e secondo disco – proprio in mezzo al concerto per caricare al massimo l’atmosfera.
Insomma, il concerto ha retto – se non oltrepassato – le aspettative create dai dischi e, nonostante abbia incrinato il mio già ostico rapporto con la generazione successiva (in grado di mantenere sollevato lo schermo del cellulare per novanta minuti di seguito senza mai stancarsi), è valso la mia intrepida uscita in un gelido lunedì sera.
Giulia Zanichelli
SCALETTA:
Sleep on the Floor
Cleopatra
Life in the City
Submarines
Dead Sea
Leader of the Landslide
Gun Song
Flowers in Your Hair
Ho Hey
Ophelia
Gloria
It Wasn’t Easy to Be Happy for You
Charlie Boy
My Cell
Jimmy Sparks
April
Salt and the Sea
Slow It Down
Big Parade
Encore:
Donna
Angela
Gale Song
Stubborn Love
Mi racconto in una frase
Famelica divoratrice di musica e patatine (forse più di patatine), diversamente social e affetta dalla sindrome di “ansia da perdita” (di treno, chiavi di casa, memoria
e affini).
I miei 3 locali preferiti per ascoltare musica
Auditorium Parco della Musica (Roma), Locomotiv Club (Bologna), Circolo Ohibò (Milano).
Il primo disco che ho comprato
“Squérez?” dei Lunapop, a 10 anni. O forse era una cassetta.
Comunque, li ho entrambi.
Il primo disco che avrei voluto comprare
“Rubber Soul” dei Beatles.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso
Porto avanti con determinazione la lotta per la sopravvivenza della varietà linguistica legata alla pasta fresca
emiliana: NON si chiama tutto “ravioli”, fyi.