Milano, 12 aprile 2022

Prima porta a destra, appena sopra lo sciacquone. Nel cesso del Biko mi salta all’occhio questa scritta: “SONCONTENTA”. Così, senza spazi. Pennarello nero su piastrella bianca. Non so quando sia comparsa e nemmeno chi sia l’autrice. Causa pandemia, erano ormai due anni che non venivo più qui. Ma chi se ne importa. Decido comunque che quella frase sarà il titolo della serata. Gli ingredienti ci sono tutti: musica giusta, birretta spillata, sorrisi a profusione. Mettici pure il ritorno alla regolare capienza, qualche vecchio amico ritrovato in platea, e il gioco è fatto. Diciamolo senza indugi: questa sera SONCONTENTO anch’io.

Contento sì, ma ho sbagliato abbigliamento. Dentro c’è un calduccio mica da ridere. Tolgo il paltò e mi dispongo sul lato destro ad altezza palco, miniera nascosta di posti liberi in prima fila. Scelgo di dedicarmi alla sezione ritmica, ma solo per caso. Di fronte a me ci sono il basso e la batteria dei Cherym (“not a girl band”, dicono loro), opening act di questa sera. Parliamo di un trio pop-punk dal Nord Irlanda, con una tendenza netta e inequivocabile al divertimento. Al sorrisone colorato, il gruppo associa le canotte da basket personalizzate e un approccio al palco decisamente sporty. Ma non si dica che sono poco impegnati: i Cherym portano avanti un’orgogliosa lotta al binarismo di genere e un’invidiabile spinta alla sensibilizzazione.

La musica come arma, dunque, e che arma! Tutto funziona alla grandissima. Si punta al ritornello killer e si va spesso a segno (Listening To My Head, il loro pezzo migliore). Nulla di nuovo sotto il profilo strettamente musicale, per carità, ma non è la novità che andiamo cercando. La vena melodica è notevole, la tecnica c’è ed è sufficiente, anche se spingerei un po’ di più sull’acceleratore. Detto questo, di brano in brano gli applausi si fanno più convinti. E c’è qualcuno, me compreso, che ne vorrebbe ancora. In estrema sintesi: una bella scoperta. Se avete amato i Veruca Salt, The Muffs e i Letters To Cleo, date una chance anche ai Cherym.

Pausetta in cortile, birra numero due, e via con il piatto forte della serata. I Beths sono una band educata e gentile. Questo va detto. Salgono sul palco come se fossero un quartetto d’archi pronto a eseguire un’opera di Mendelssohn. Nelle corde, però, hanno un irresistibile power pop che ti rapisce al primo ascolto. Elizabeth Stokes, poi, gioca la parte della leader un po’ timida, nascosta dietro un sorriso dolce e composto. Poche parole, qualche battuta abbozzata, pronunciata quasi sottovoce. Il batterista Ivan Luketina-Johnston imbastisce uno stentato italiano per i soliti complimenti al nostro cibo (qui in chiave locale con gli apprezzamenti al risotto). E va bene, ma a parlare è soprattutto la musica.

Si parte con I’m Not Getting Excited, prima traccia del secondo disco dei neozelandesi. Bastano pochi minuti e la conferma arriva lampante: i Beths hanno un tiro pazzesco, c’è potenza e raffinatezza. Che goduria. Non è un caso che i nostri quattro si siano conosciuti al jazz college di Auckland. L’estrazione è quella lì, gli strumenti li sanno suonare alla perfezione. Dove un musicista qualsiasi se la sarebbe cavata in modo scolastico, loro impreziosiscono il suono con passaggi non scontati. Dal vivo, questo pregio, diventa evidentissimo. Poco importa se il genere non richiede una particolare perizia. Perché se ce l’hai, puoi metterla a disposizione del brano nella sua resa complessiva, manovrandola nelle pieghe tra la strofa e il ritornello. Così, senza dare troppo nell’occhio. È forse questo il segreto con cui i Beths riescono a rendere rock una canzone pop e viceversa. E poi i cori, ragazzi, non sottovalutiamo i cori. Tutta la band, nessuno escluso, canta al fianco di Elizabeth nei momenti giusti.

In scaletta, inutile sottolinearlo, ci sono tutte le loro canzoni più belle. Dal primissimo singolo, Whatever, all’ultimo, The Real Thing, uscito lo scorso febbraio. Happy Unhappy, naturalmente, e poi Future Me Hates Me, con il pubblico del Biko che esplode. Vedo un amico puntare il dito al cielo. Poi lo rivedo fare leva sulla spalla di un altro e saltare più in alto che può, tipo Tamberi alle Olimpiadi. Tutto molto bene. Ho la netta impressione di non essere l’unica persona soddisfatta, qui dentro. I Beths nel frattempo salutano e poi tornano per altri due pezzi. River Run: Lvl 1 e la bellissima Dying To Believe. E giù un’altra bordata di entusiasmo. Poi tutto finisce. In pochi secondi il pubblico si assiepa intorno al merchandise. È il segno che è stato un concerto come si deve. Oh, il mio paltò è ancora laggiù nell’angolo. Lo recupero ma lo tengo sotto braccio. Fuori è quasi primavera, e sarebbe anche ora. Guadagno l’uscita scodinzolando. Per stasera può andare bene così. Passo dal bagno e ripenso: sì, SONCONTENTO.

Paolo

 

 

 

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