Ormai Stephen Malkmus ha raggiunto lo status di semi-divinità, di classico, un autore senza tempo benché saldamente inserito nella tradizione Americana e connotato da un suo peculiare stile raffinato e sornione. In questa sua ultima fatica – ma la parola fatica associata ad uno slacker come lui suona strana, quasi iperbolica: l’ex Pavement è un artista talentuoso, conscio dei suoi mezzi, che parla di fatica quando sposta le gambe dal tavolo della cucina al divano del salotto, ne siamo certi – in questa sua ultima fatica, dicevamo, il ritmo è rilassato più del solito, ad esempio la batteria è praticamente assente, ma l’atmosfera generale è anche più carnale del consueto, di certo più delle prove un po’ troppo cromate con i Jicks.

Si respira invece tradizione, country, blues, primitivismo alla Fahey, cantautorato freak alla Mayo Thompson e psichedelia alla Beatles alla scoperta dell’India. O per restare nella biografia dell’autore, sembra una versione di out-takes da “Crooked Rain Crooked Rain”, suonate in cucina col minimo di elettricità necessaria.

A volte le tracce sono più avvolgenti e vorticose, nei giochi di chitarra che erutta e risacca, altre il battito cardiaco è quello della siesta, oppure gli intrecci sono delicati come il pizzo ricamato dalla nonna. Non pensate però al folk infantile di Syd Barrett, qui l’immagine che più si materializza è quella del solitario sì, ma nomade, da medico che si fa saltimbanco da fiera, un po’ figlio di puttana, ma, nel caso del nostro, troppo ozioso per affondare la lama.

Non è certo un disco di quelli che cavalcano le sonorità del momento, ma ha molta più qualità di quello che potete trovare nelle recenti uscite di altri eroi degli anni ’90 che si sono reinventati cantautori (parliamo di Mark Lanegan ed Eddie Vedder, parliamo di top player); ma se cercate dell’adult rock che per una volta, oltre al mestiere, abbia anche fosforo, tendini e sappia spiazzare, allora fatevi sotto.

Alessandro Scotti

 

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