Se penso al grande e vero indie americano a cavallo fra i due millenni, mi viene subito in mente un poker d’assi: Evan Dando, Mark Oliver Everett, Elliott Smith e Mark Linkous. Quattro artisti diversi, ma uniti da una certa fragilità interiore, più di un pizzico di genio, scelte azzardate e a volte francamente assurde, una scrittura cantautorale di livello altissimo, un’attitudine punk che manco certi crestoni del ‘77.

Per i quattro moschettieri con la chitarra, la sorte è stata diversa: se il primo, dopo il grande successo con i suoi Lemonheads, macina ancora chilometri in fumosi ma affascinanti locali e il secondo con i suoi Eels gode tuttora della maggior fama, gli ultimi due ci hanno invece detto addio ormai parecchi anni fa: Elliott esattamente venti, Mark tredici. Ciò significa che questo “Bird Machine” esce ben tredici anni dopo l’uscita di scena di Linkous e dei suoi Sparklehorse.

Il disco, curato dal fratello Matt e sua moglie Melissa, è basato in maniera assolutamente fedele su come avrebbe voluto fosse dato alle stampe lo stesso Mark se quest’ultimo non avesse scelto un finale ben più triste. Il suono è quindi un proseguimento verso una personalissima idea di pop che via via, dallo sgraziato fuoco del capolavoro “Vivadixie submarine transmissionplot”, si era fatto sempre più spazio fino al capitolo conclusivo “Dreamt For Light Years In the Belly Of A Mountain”, se non si conta la collaborazione con Danger Mouse e dodici altri artisti in “Dark Night Of the Soul”.

I quattordici brani che formano il disco sono indiscutibilmente frutto della mente di Mark Linkous, dal punk ramonesiano di It Will Never Stop al pop spettrale pianistico di O Child, l’alt-country di Daddy’s Gone o il bozzetto strumentale di Blue. Ognuno, quindi, rientri nel magnifico mondo degli Sparklehorse, si goda questi pezzi e si scelga i suoi preferiti. Chissà che Mark da lassù non stia sorridendo.

Andrea Manenti