old wow

Sam Lee è uno dei nomi più conosciuti e anche uno dei più apprezzati della scena musicale britannica sul versante folk, specialmente per il suo attaccamento alle radici e il modo di creare un vero e proprio connubio con l’ambiente circostante. Anche grazie alla sua organizzazione The Nest Collective, ha contribuito negli anni a creare un punto d’incontro tra quelle famose radici della musica folk e la musica contemporanea. Con “Old Wow” contribuisce ad innalzare nuovamente la sua opera, tarando gli ingredienti per un lavoro emozionale.

Dopo “Ground of His Own” (l’esordio nel 2012) e “The Fade in Time” (2015), ci troviamo dinanzi all’ennesimo cambio di prospettiva, questa volta caratterizzata da un uso massiccio della chitarra, per l’occasione suonata da Bernard Butler (Suede), che troviamo anche nelle vesti di produttore. Tra un violino a nove corde e l’inconfondibile voce di Elizabeth Fraser (Cocteau Twins), ecco che ci troviamo per le mani un insieme di canzoni che di fatto costituiscono quello che è il lavoro più compatto della sua carriera discografica.

Praticamente un’istituzione tra i cantautori del suo genere, tanto per lo stile quanto per le innovazioni, innamorato della bellezza del canto, rafforzato negli anni da incontri fortunati (quello con il mentore Stanley Robinson forse più di altri), ora, con il terzo disco, Sam Lee riprende alcuni brani di folk classico e li reinventa nel suo stile, sull’onda di ascolti jazz e rock.

Non stupisce che i temi di “Old Wow” vertano intorno a un dichiaratissimo amore per la Natura, creatrice di meraviglia e connessione, fortemente ispirati da un viaggio tra le montagne scozzesi durante un momento di crisi esistenziale e che si riflettono in una visione esaltante di tutto ciò che ci circonda. L’interesse è così profondo che arriva perfino a toccare la sfera riguardante la crisi ecologica, tema più che mai caldo degli ultimi anni e caro a Sam Lee (ricordiamo che tra le altre cose è anche membro fondatore dell’organizzazione Music Declares Emergency, in cui l’industria musicale cerca di combattere il cambiamento climatico).

Il nostro porta a compimento il lavoro di riscrivere le canzoni della tradizione, in quanto egli stesso avido collezionista, immaginando come potrebbero essere nuovamente rilevanti a un attento ascoltatore odierno, inserito in un contesto tanto differente rispetto a quello originale. Se è vero che le sperimentazioni alle quali ci aveva abituato dopo l’esordio erano uno dei suoi pezzi forti, questo album si conferma una vera e propria rivelazione per quanto riguarda il livello di diluizione tra le parti musicali (affidate a James Keay, Josh Green, Alice Zawadzki, Misha Mullow-Abbado, Yusef Narçin e Larry Stott).

The Moon Shines Bright è uno degli esempi di come sia una mossa vincente accostare canti gitani e musica folk. Se poi la voce è quella della Fraser, è intuibile come non potesse che essere altrimenti. Dopo il ritmo cadenzato di Lay This Body Down, l’altra protagonista è la voce di Lee, tanto ferma in alcuni punti e anche così sconfinatamente romantica in altri (Turtle Dove).

La sfera del naturale ha un potere di ispirazione fuori dal comune per Lee, e in questo album folk si inserisce perfettamente senza risultare invadente, non trattandosi di una sfida semplice riportare alla luce brani composti decine di anni prima e renderli fruibili anche ad ascoltatori profani. “Old Wow” è il personale ringraziamento alla meraviglia della Natura tutta, in un tentativo d’autore di farla riemergere come regina e protagonista, obiettivo pienamente raggiunto in un lavoro in cui ogni traccia è portatrice di questo messaggio in sostegno al nostro pianeta.

Caterina Gritti