Il trio delle meraviglie + 1
Il parapetto era piuttosto basso. Mezzo metro di mattoni a vista e il cornicione intonacato di bianco. Faceva un caldo fottuto, come ogni estate. Di avere l’aria condizionata in casa non se ne parlava. Per un gruppo di brufolosi come noi, il terrazzo di un condominio andava più che bene. Fu lì che sentii parlare per la prima volta di “…And Out Come The Wolves” dei Rancid. Era il 1995, un’epoca francamente pessima per un adolescente. Da una parte gli echi lontani della guerra in Jugoslavia, dall’altra il consumismo sfrenato e la Tv spazzatura. Un mondo costruito sulle illusioni. Eravamo i nipoti del boom economico, quello che più avanti ci avrebbe tagliato le gambe. Non c’era nulla di buono in quegli anni. Nulla, tranne la musica. Dall’Inghilterra ci arrivava il brit-pop, e va bene. Ma a interpretare al meglio le nostre frustrazioni era il punk americano. L’anno prima, il 1994, ne erano successe di tutti i colori. Un giorno tornai a casa da scuola e appresi dal giornale della morte di Kurt Cobain. La triste notizia si diffuse “subito” con un giro di telefonate su rete fissa. Poi, però, tre gioie in pochi mesi. Nei nostri walkman iniziarono a girare “Dookie” dei Green Day, “Smash” degli Offspring e “Punk in Drublic” dei Nofx. Non sapevamo, però, che questo trio delle meraviglie fosse destinato a trasformarsi in un poker d’assi l’anno successivo.
Torniamo allora a uno di quei pomeriggi afosi sul terrazzo. Era il 1995, dicevamo. Un amico in canottiera lanciò l’annuncio ufficiale: «Ho preso il nuovo cd dei Rancid. È figo». All’epoca ci si doveva fidare. Niente Spotify, nessuna recensione istantanea su internet. Si comprava tutto a scatola chiusa. Ma questa volta l’amico ci aveva visto giusto. Aspettammo qualche giorno prima che ce lo prestasse. Poi, la rivelazione. A partire dalla copertina, un omaggio al primo EP dei Minor Threat, dove il fratello del cantante Ian MacKaye appariva seduto su una scala, piegato in avanti con la testa tra le mani. Nell’iconico artwork dei Rancid, il chitarrista e cantante Lars Frederiksen è accovacciato nella stessa posizione in un bianco e nero che ha fatto storia. Con una grossa differenza: all’immagine tipicamente hardcore di MacKaye si contrappone lo stile street-punk di Lars. Cresta, tatuaggi e gilet strappato d’ordinanza. Una “divisa” che incarnava alla perfezione la rabbia adolescenziale e che ispirava le nostre piccole rivoluzioni quotidiane. Dalle magliette larghe e le scarpe da skate, passammo quindi agli anfibi, due o tre spille qua e là e qualche timido tentativo di impennare il ciuffo.
Il primo impatto
Ma al di là dell’aspetto estetico, per quanto importantissimo per un ragazzino con la voglia di riscatto, a straziarci di gioia fu la musica. “…And Out Come The Wolves” è il terzo disco della band californiana, il secondo con Frederiksen in formazione. I primi due lavori (“Rancid” e “Let’s Go”) erano missili di ispirazione britannica (Cock Sparrer, The Exploited, Angelic Upstarts), che sporcavano il revival punk già in atto in quegli anni con manciate di Oi! stradaiolo. Belli, bellissimi. Ma questo nuovo album aveva qualcosa di diverso. Più orecchiabile, certamente, ma mai ruffiano. Dopo il successo planetario di Green Day e Offspring, le major naturalmente avevano messo gli occhi anche sui Rancid. Il gruppo, però, aveva scelto di rimanere nel roster della Epitaph di Brett Gurewitz (Bad Religion) per mantenere la propria indipendenza. Il successo commerciale fu comunque garantito. Merito del passaggio a una dimensione meno rigida e incanalata in strutture tradizionali, a favore della mescolanza di generi. Il mito dei Clash, insomma, incominciava a farsi sentire con una certa insistenza.
Il primo ascolto di “…And Out Come The Wolves” fu quindi un’esperienza esaltante. Per mocciosi come noi, l’attacco di Maxwell Murder era roba da pazzi. All’assolo di basso di Matt Freeman, ci scappò addirittura la citazione di Renato Pozzetto. Così, tutti in coro: “E la Madoonna!”. Roots Radical divenne subito il nostro nuovo inno, con Ruby Soho piazzato in seconda posizione. Il sing along scattava immediato. Pezzi da cantare a squarciagola, meglio se abbracciati, con la Peroni da 66 sollevata al cielo tipo spada di He-Man. Journey to the End of the East Bay e Avenues & Alleyways, quest’ultima ancora smaccatamente Oi!, non erano da meno. Le storie raccontate dai Rancid si incastravano benissimo tra il sogno di libertà e la tragedia urbana, tra la collera repressa e un’attitudine falsamente pacata.
Una nuova era
Come non citare, poi, il brano che li ha resi celebri nel mondo: Time Bomb. Alzi la mano chi non l’ha mai ballata durante un qualsiasi djset alternativo. Con Daly City Train e Old Friend, la maggiore hit dei Rancid costituisce l’ossatura ska-punk di “…And Out Come The Wolves”. Una bella novità per il gruppo di Berkeley, che da quel momento, sulla falsariga di Joe Strummer e soci, aprirà le porte alla musica in levare, dal reggae al rocksteady. A dirla tutta, non si trattava di una vera e propria innovazione. Era piuttosto un ritorno al passato, quando Tim Arstrong e Matt Freeman fondarono i seminali Operation Ivy, pionieri della Third Wave of Ska sul finire degli anni ’80. Nel disco successivo, “Life Won’t Wait” (1998), i Rancid avrebbero calcato ancora di più la mano sui ritmi giamaicani, nel tentativo, in buona parte riuscito, di realizzare il loro “London Calling”.
Da quel momento e fino ai giorni nostri, la band ha seguito una parabola lievemente calante. Il livello è rimasto buono, ma forse è venuta meno un po’ di convinzione. Un attimo, però. Vero è che i Rancid non sono mai giunti a compromessi. Ed è altrettanto vero che rappresentano ancora oggi un punto di riferimento di un certo modo di fare musica. Quella scena, tuttavia, si è ormai ridotta al lumicino. Le nuove generazioni guardano piuttosto all’ultima ondata post-punk fiorita in Gran Bretagna. Allora, per dirla banale-banale, sarebbe meglio ammettere che i Rancid sono semplicemente invecchiati. E noi con loro. Ma a distanza di 25 anni, porca miseria, “…And Out Come The Wolves” ha ancora un effetto esplosivo. Pare quasi di tornare su quel terrazzo.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.