Sono passati ormai quindici anni dalla reunion dei Pixies, tre lustri durante i quali la band di Boston ha dimostrato sì di essere ancora una formidabile band live, ma anche di avere qualche crepa nella produzione in studio. Laddove “Indie Cindy” peccava di eccessiva originalità allontanandosi forse un po’ troppo dal tipico sound  della band (ma conteneva comunque grandi singoli, uno su tutti Andro Queen), “Head Carrier” si sedeva forse un po’ troppo eccessivamente sulla formula d’oro strofa tranquilla / ritornello roboante, che aveva fatto di Black Francis e soci una delle band fondamentali dell’alternative rock a stelle e strisce.

“Beneath di Eyrie” si colloca invece con successo perfettamente nel mezzo fra il rispetto della loro stessa tradizione e una rinnovata voglia di stupire.
Brani come Catfish Kate, Ready for Love, Silver Bullet e Long Rider proseguono nel solco tracciato dai bostoniani già ai tempi d’oro del capolavoro “Doolittle”, mentre il resto dell’album meraviglia per originalità. La doppietta iniziale formata dall’opener In the Arms of Mrs. Mark of Cain e dal primo singolo On Graveyard Hill presenta dei Pixies dalle tinte (sebbene ironiche) mai così dark.

This Is My Fate è una marcetta brechtiana alla Tom Waits, Los Surfers Muertos conferisce finalmente dignità alla “nuova” bassista Paz Lenchantin (Kim Deal non c’è più da un po’… fatevene una ragione), St. Nazaire mescola un rock’n’roll scarno alla Cramps con una potenza hardcore punk, Bird of Pray è una sghemba ballad western, Daniel Boone è l’epicità fatta canzone, Death Horizon la perfetta conclusione acustica. Finalmente i Pixies sono tornati ai livelli di inizio anni Novanta (quelli di fine Ottanta sono probabilmente e giustamente irraggiungibili).

Andrea Manenti