“Il lungo addio” è un romanzo di Chandler dove Marlowe fa i conti con l’amicizia, la fedeltà, il perdono e il silenzio. È un libro che puzza di disillusione, ma anche di accettazione del tempo che passa e della fiducia che si perde. Senza rancore. Un gran romanzo. Chissà perché i Pere Ubu ci hanno intitolato il loro ennesimo disco.
Forse essere uno dei pochi gruppi ancora attivi tra quelli usciti dalla new wave degli Anni ’70 ha aiutato a fare una simile scelta. Forse il gruppo di Cleveland si sente come il Marlowe di questo romanzo, un anti-eroe rimasto sulla strada a fare con cocciutaggine, in solitudine e con una dose di umanissimo autocompiacimento uno sporco e nascosto lavoro.
Di certo chi ha registrato questo disco non si sente, e non è, una comitiva di pensionati tirati a lucido per un amarcord deciso ai piani alti. Pur non avendo più la dirompenza dei loro anni verdi, i Pere Ubu continuano con coerenza il loro progetto. Nella loro maturità artistica giocano già da un po’ di uscite con la citazione dell’America Anni ’50, più o meno da quando hanno iniziato a consolidare la line up con cui registrano dai tempi di “St Arkansas”, ovvero da quando hanno cominciato a sfornare dischi che recuperano la vena acida della loro prima incarnazione.
Quest’ultima fase della pluridecennale carriera del gruppo di David Thomas gioca quindi con il ricordo vero, o ricostruito che sia, dell’età dell’oro, loro e della loro patria, ma senza nascondere le rughe, finendo così per impastare un suono sempre più cameristico, mitteleuropeo e goffamente sensuale.
Le 10 tracce d’ordinanza qui presenti prediligono i ritmi moderatamente lenti, tant’è che solo nell’inziale What I Heard On The Pop Radio e in Flicking Cigarettes At The Sun il passo accelera verso il boogie blues. All’opposto troviamo Marlowe, un lento giocoso e sghembo da manuale del rock patafisico, che potrebbe trovare un posto in prima fila nel loro repertorio.
La spina dorsale di “The Long Goodbye” pare però costruita su canzoni che si confrontano con la no wave riverniciandola con la saggezza e il tocco colto da attempati teatranti del vecchio continente, a volte con una ritmica troppo robotica e fredda – vedi The World (As We Can Know It) – altre con un profumo da Germania Anni ’30 depurato da ogni ricordo delle radici rock del suono Pere Ubu, come in Road Is A Preacher, Skidrow-on-sea e nel waltzer di Lovely Day.
In un paio di occasioni, poi, questi schivi campioni dell’avant garage pare strizzino l’occhio ai loro nipoti, con Who Stole The Signpost?, un divertissment hipster con tasteria Casio inclusa, e con Fortunate Son, dove i nostri auto citano il suono che hanno pesantemente contribuito a costruire a cavallo dell’esplosione punk, con risultati ottimi come ci si aspetta da chi sa fare da decenni il proprio mestiere con riconosciuta professionalità.
Resta ancora da citare la lunga The Road Ahead, all’inizio un lento recitato da crollo nervoso che dialoga col synth, per poi emanciparsi e far levigare le sue asprezze grazie a un intreccio tra tastiere e cassa dritta che puzza un po’ di Ted Talk musicato progettato per indorare la pillola amara della patafisica a beneficio dei profani abituati a suoni più digeribili.
The Road Ahead è anche il pezzo giusto per tirare le fila circa i pregi e i difetti dei Pere Ubu del secondo decennio del nuovo millennio, nuovo rispetto a quello in cui per 25 anni hanno prodotto musica: la voce di David Thomas è sempre in bilico tra il castrato e il ruvido, qui con reminiscenza di Captain Beefheart, e resta ancora oggi una delle più originali, oneste e toccanti del rock tutto; il synth continua a fare da contrappunto al cantato, come è sempre stato nei momenti migliori dei nostri; l’onda sonora continua ad apparire spesso deformata come in un cartone animato realizzato da un regista espressionista tedesco della repubblica di Weimar; la ritmica pare evidentemente il maggior limite del loro canzoniere attuale, perché invece di avere la giusta banalità del loro periodo pop o la libertà ritmica dei loro dischi iniziali, troppo spesso manca di groove e si nasconde in facili 4/4 dal timbro spigoloso.
Ecco, se potessimo dare un consiglio ai Pere Ubu per il loro prossimo disco, sarebbe quello di togliere la batteria, magari sostituirla con delle percussioni e provare a vedere l’effetto che fa. Un disco che potrebbe fare in ogni caso la gioia dei fan di vecchia e nuova data, degli amanti dell’out rock mainstream contemporaneo e di chi ha già fatto l’abbonamento a teatro per la prossima stagione ed ama sia le commedie classiche che le pièce più sperimentali e snob.
Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.