Milano, 12 ottobre 2025

Non è il caldo, ma l’umido. Forse sono entrambi, forse è la domenica sera. Fatto sta che ho una camicia di lana ruvida che è un errore madornale. Il colletto mi sfrega la nuca, rossore e prurito insieme. Il polsino si inumidisce. Porto il bicchiere alla bocca e mi sfrega sul gomito. Sono stanco, birra e patatine per cena, non ho più l’età. Ma sono qui, all’Arci Bellezza, perché stasera ci sono i Mclusky. Puoi avere tutte le camicie sbagliate che vuoi. Temperature ostili, alimentazioni scorrette, sveglie proibitive. Non importa, ci sono i Mclusky.

Mancavano da vent’anni, forse di più. Mai sentiti dal vivo, mai nemmeno sperato in una reunion. E invece eccoli lì, sul palco sotterraneo, quello della Palestra Visconti. Belli come il sole, pronti a tirare giù tutto, con un sold out servito sul piatto. A fianco dello storico leader Andrew Falkous, che si presenta con i cuffioni in testa tipo sala di registrazione, ci sono il bassista Damien Sayell e il batterista Jack Egglestone. Il primo è indemoniato prima ancora di attaccare. Il secondo (già con Falkous nei Future Of The Left) è seduto dietro un pannello in acrilico che fa da scudo per la battaglia.

Basta davvero poco per capire che il power trio di Cardiff è ancora in gran forma. Sudore, energia, ma soprattutto onestà. Non è un ritorno piacione. Non è una furbata per fare soldi. Non è nemmeno un’operazione nostalgia. Lo scorso maggio hanno buttato fuori un disco che ha una dignità pazzesca. Bello quanto i primi, con un sound aggiornato, ma fortemente legato alla storia della band. Trame che si riallacciano dopo due decenni, come se fossero due mesi. Tanto che i nuovi brani, dal vivo, si mescolano alla perfezione con quelli del 2002.

Attaccano con Lightsabre Cocksucking Blues ed è subito delirio. Le testoline iniziano ad agitarsi. Sui volti si legge la soddisfazione di chi sa, di chi ha già vissuto quel momento, che sia sotto un palco o rannicchiato sull’autobus con il lettore cd. Intanto la lana mi graffia il collo, ancora, ma tiro avanti. C’è un’esplosione noise da domare.

Che poi cosa fanno i Mclusky? Post-punk? Post-hardcore? Sentiti oggi, fanno molta impressione. Perché suonano freschi e moderni, oserei dire alla moda. Dentro i Mcluscky ci senti i Melvins e i Jesus Lizard, ma anche gli Idles e i Chat Pile. Sembra quasi che per uno strano caso, in modo del tutto involontario, abbiano fatto da ponte tra il vecchio e il nuovo rumore, riscoprendosi “nuovi” a loro volta. Come quando ti guardi allo specchio, strabuzzi gli occhi per cancellare le rughe, e pensi che in fondo fai ancora la tua porca figura.

Buona parte della scaletta è tratta da “Mclusky Do Dallas”, il loro disco più importante prodotto da un certo Steve Albini. Unpopular Parts Of A Pig è la prima canzone del nuovo album a fare capolino. Tirata e grottesca come da copione, con la batteria a punteggiare con precisione gli stop and go tipici del trio gallese. Il tempo passa, le mitragliate di Kafka-esque Novelist Franz Kafka scaldando i muscoli e i cuori. C’è del pogo in palestra, ma è composto e innocuo. Tanta energia, pochi lividi.

Falkous si mette al basso e Sayell alla chitarra. She Will Only Bring You Happiness offre il destro per una tregua. È una buona idea, perché di lì a poco arrivano i pezzi forti, compreso Alan Is A Cowboy Killer, impossibile non saltare. The Battle of Los Angelsea, con Sayell alla voce, gli fa il paio con i suoi incastri granitici (qualcuno ha detto Helmet?).

Si chiude in baldoria con To Hell With Good Intentions. Nemmeno un bis, alla vecchia maniera. Pochi secondi dopo il trio si presenta al banchetto del merch. L’impressione è quella di trovarsi al cospetto di una grande band che ama stare con i piedi per terra. Goliardia e tanta sostanza. Tutto qui, e dici poco.

Resta il problema del prurito. Anzi no. Quando rientro a casa, se n’è bello che andato. Ma allora forse non era la lana. Era un riflesso o un sintomo di stress. O forse era soltanto la voglia di genuinità. Gratta gratta, tutto è possibile.

Paolo