Milano, 28 ottobre 2024

Basta un sussurro, una parola abbozzata. Riconoscerei quella voce anche in mezzo all’incrocio di Shibuya all’ora di punta. E non è una questione di volume, ma di suono. Un lieve tremolio, il magone strozzato in gola. Così fragile, eppure così sexy. Quella di Kim Gordon è la voce di almeno tre generazioni. La gioventù sonica che non accenna a invecchiare. La chioma imbianca oppure scompare. La pelle si increspa e indurisce al tatto. Ma lo spirito non ha rughe, è ancora quello di Teen Age Riot. Alla fine ci si ritrova tutti sotto il palco dell’Alcatraz. Dove non esistono distanze: i seguaci della prima ora, schierati accanto ai nuovissimi affiliati. Quelli che l’artista newyorkese ha saputo conquistare grazie alla sua storia gloriosa, questo è certo, ma anche in virtù di un progetto solista tutt’altro che nostalgico.

Nei due dischi pubblicati finora a suo nome, Kim Gordon guarda all’industrial, alla trap d’autore (ma distorta), al dub liquido e a tutte le declinazioni possibili per accomodare il suo spoken word su un tappeto elettrico. Insomma, siamo più vicini alle divagazioni sonore del progetto Body/Head che alle rastrellate dei Sonic Youth. Il noise, però, continua a farla da padrone. L’atmosfera è ancora oggi sinistra e vagamente oscura, tanto da spingere in via Valtellina qualche vecchio fan dei Bauhaus (con maglietta incorporata) e molti reduci dal concerto di Nick Cave di un paio di settimane fa.

In versione live, poi, la componente rumoristica dei nuovi brani di Kim Gordon è ancor più protagonista. Il merito è anche e soprattutto di una band ormai affiatata, che smanetta parecchio sull’attrezzatura digitale, ma non risparmia mai su chitarra, basso e batteria. È così che canzoni come The Believers o Trophies, che su disco suonano sì ruvide ma tutto sommato innocue, dal vivo diventano una bordata in faccia niente male. Kim si presenta sul palco imbracciando una chitarra, ma poi si dedica quasi esclusivamente al canto, libera di salmodiare come solo lei sa fare.

Il nuovo album “The Collective” viene suonato integralmente (a eccezione di Tree House), rispettando lo stesso ordine delle tracce. Detta così, ha l’aria dell’esecuzione pedissequa e un po’ ingessata, ma posso assicurare che non ha fatto questo effetto. Anzi, a partire da Bye Bye, tutti i brani graffiano la schiena con una verve rinnovata, sfociando spesso in versioni più dilatate rispetto a quelle registrate in studio. Tra gli altri spiccano I’m a Man, un mantra elettrico che colpisce al cuore, e Dream Dollar, trasformata in una cavalcata selvaggia sui sentieri del punk. Ai pezzi del nuovo album se ne aggiungono quattro del precedente “No Home Record”. Il più potente è naturalmente Air BnB, la traccia solista che si avvicina maggiormente al sound dei Sonic Youth, periodo “Dirty”. La chiusura è affidata all’inattesa Grass Jeans, singolo del 2021 che esula dal resto del set con piacevole fragore.

A questo punto la messa è finita, direbbe qualcuno. E come ogni liturgia che si rispetti, si esce dall’Alcatraz gonfi di devozione per un’artista che offre sempre qualcosa di più oltre a un ottimo concerto. Kim Gordon, 71 anni e non sentirli, crea un campo magnetico in cui ribellione e purezza convivono magnificamente. Difficile sfuggire. Impossibile non rimanere attratti.

Paolo