La stagione più critica era l’autunno. Quando l’albero di cachi davanti all’ingresso del Circolo Ohibò sganciava bombe arancioni che si spappolavano nel cortiletto. Ricordo i nostri sguardi rivolti verso l’alto: «Sono maturi? Spostiamoci dai, altrimenti ci piovono addosso». Quella era anche la stagione in cui il circolo più colorato di Milano ricominciava a carburare dopo la pausa estiva. Spingevi il maniglione antipanico, la porta cigolava divaricandosi verso l’interno, e sotto la scala c’erano i ragazzi di Costello’s pronti ad accoglierti.
Il corridoio ti portava nella stanza più assurda del locale. Una sorta di grosso atrio, una sala d’attesa buia, con un che di misterioso, dove in questi otto lunghi anni ho assistito a incontri segreti, confessioni intimissime, scherzi da guascone e fotografie di gruppo. Qui mi fermavo spesso per ritagliarmi un momento di solitudine. Il più delle volte dopo aver trangugiato qualche cocktail di troppo. Più in là c’era la sala concerti, con quel sipario di velluto rosso che faceva tanto teatro d’avanspettacolo. In caso di grossa affluenza, si usava un trucco infallibile: passare dietro la tenda e sbucare in prima fila. Un altro particolare per cui impazzivo era la scaletta che dal palco terminava contro la parete alle sue spalle. Cinque scalini per sbattere contro un muro. Era un invito a salire dove nessuno poteva arrivare. Un paio di volte mi ci sono pure arrampicato.
Inutile provare a contare i live a cui ho partecipato al Circolo Ohibò. Se considero una media di uno ogni dieci giorni, sfioro i trecento. La programmazione, specie negli ultimi anni, era tra le migliori della città. Dall’indie nostrano alle band internazionali. Sussurri e grida, pogo e preghiere. Là sotto non mancava niente. La ressa per i Cloud Nothings, quella per i Gazebo Penguins e Yellow Days. La chitarra di Stu Larsen, come dimenticarla. La batteria di Luca Ferrari e gli Animatronic. Le invettive di Pierpaolo Capovilla, che anche dopo il concerto si fermava a bere un bicchiere con tutti.
Per non parlare di quella sera in cui suonarono a sorpresa i Green Day. Sì, proprio loro. Era una notte di maggio del 2012, la band avrebbe dovuto suonare il giorno successivo alla Fiera di Rho. Sul palco dell’Ohibò erano previsti i Prima Donna, il gruppo di Kevin Preston, chitarrista dei Foxboro Hot Tubs (side-project dei Green Day) e dei The Longhsot, altra band di Billie Joe Armstrong. Ebbene, il trio californiano si presentò al locale, si fece prestare la strumentazione dal gruppo di amici e suonò 15 vecchissimi brani (quelli belli) davanti a poche decine di persone. Quella sera ero rimasto a casa a guardarmi un film. Quando lo seppi, mi mangiai le mani per mesi.
E poi, e poi. Il circolo di via Benaco è stato anche il trampolino di lancio per tanti artisti diventati famosi. I Thegiornalisti, gli Ex-Otago, Mahmood prima di Sanremo. E Calcutta, nel 2015, poco dopo l’uscita di “Mainstream”. Quella fu la sera in cui per la prima volta si ebbe la sensazione che il musicista laziale potesse davvero sfondare. Di lì a poco avrebbe iniziato a riempire gli stadi.
Infine c’erano le serate sfigate. I martedì di pioggia, le domeniche di maggio. Quelle in cui i milanesi sono in coda sull’autostrada per rientrare dal weekend. Lì l’atmosfera si faceva più intima, gli spazi tra uno spettatore e l’altro erano più larghi, quasi da distanza sociale. Erano i momenti migliori per godersi a pieno il locale. Con Geoff Farina dei Karate da solo sul palco, il ventilatore in alto a sinistra che gracchiava, le voci degli esaltati che riecheggiavano dal bar.
Ecco, il bar: uno spazio enorme, con il biliardo padrone indiscusso della sala e quelle due colonne davanti al bancone, maledette, che non sapevo mai come aggirare per raggiungere l’angolo della birra. Dall’altro lato c’era la statua di un robot, un affare alto due metri dall’aria molto cyberpunk che non ho mai capito cosa volesse dirci.
Sì, all’Ohibò mi sono divertito tantissimo. Ho riso di gusto, ho stretto amicizie, ho parlato di musica con persone di cui non ricordo nemmeno la faccia. Ho festeggiato un paio di compleanni, ho rovesciato birre e sudato milioni di magliette. Ma ho anche pianto (una volta, sicuramente, ascoltando Micah P. Hinson) e mi sono incazzato, quando capitavo nelle serate no. Non avrei voluto scriverlo per non risultare banale, ma alla fine sì, era un po’ come stare a casa. Perché ci si andava in automatico, anche quando la voglia era poca, certi che poi sarebbe andata bene.
Ma oggi l’associazione Ohibò e Costello’s, che da anni curava la direzione artistica, hanno annunciato la chiusura del locale. Per gli appassionati di musica bella è stata una notizia terribile. La crisi economica seguita alla pandemia ci ha portato via uno dei luoghi simbolo della Milano che ha sete di musica. L’albero di cachi continuerà a germogliare, ne siamo certi, ma il cortiletto resterà vuoto. La speranza in questi casi è sempre la stessa: che chi è stato costretto a mollare per causa di forza maggiore non abbia perso la voglia di sognare e provare a ripartire da zero. Questo è anche il nostro augurio. Che sia un arrivederci, dunque. «Ci si vede lì», ovunque sia.
Paolo
I nostri report di alcuni dei migliori live al Circolo Ohibò:
Micah P. Hinson (11 novembre 2019)
Cloud Nothings (14 febbraio 2019)
Girls Names (31 ottobre 2018)
Radio Moscow (11 mggio 2018)
Valerian Swing (14 ottobre 2017)
Any Other (4 marzo 2017)
Calcutta (20 dicembre 2015)
La foto di copertina è tratta dalla pagina Facebook di Circolo Ohibò.

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.