Una cosa alla volta

Milano, 11 novembre 2019 – A volte a colpire sono i dettagli, le minuzie. C’è chi tende a nasconderli, a scoparli sotto il tappeto per mostrarsi perfetto nell’insieme, e chi invece li lascia liberi di svolazzare per la stanza, che sia per orgoglio o per totale disinteresse. Micah P. Hinson, alfiere del neo-folk più sghembo d’America, appartiene a questa seconda categoria. È un omino fragile e senza tempo, di quelli che se ci sbatti contro per sbaglio ti fanno fare la figura dell’elefante in una cristalleria.

Il cantautore nato a Memphis si presenta sul palco dell’Ohibò nel suo consueto stile da vecchio skater. Gilet costellato di toppe, maglietta a righe fini fini e anello che scintilla al primo lampo di luce sotto i riflettori. Si muove piano, allo stesso ritmo del cuore, stremato da un’esistenza troppo difficile per prenderla ancora di slancio. La sua, però, è una lentezza avvolgente e mai fastidiosa, che rende tutto perfettamente visibile ad occhio nudo. Come la moviola ai tempi della Var.

È così che ogni suo movimento è seguito da una scia di dettagli che è impossibile non notare. Le lenti degli occhiali che si appannano per il caldo, la tracolla della chitarra che si sfilaccia mentre accorda, le tre rughe che si disegnano sulla fronte all’inizio di ogni canzone. E ancora, con la stessa definizione di un documentario sulla vita degli insetti, puoi vedere la cenere della sua ennesima sigaretta precipitare a terra carambolando sul capotasto, ne senti quasi il rumore, mentre l’acconciatura, piegandosi in avanti, si scompone con l’umidità e lascia cadere un ciuffo di capelli davanti all’orecchio.

Un ospite a sorpresa

A Milano il nostro cowboy solitario è accompagnato in via eccezionale da Alessandro “Asso” Stefana, fondatore dei Guano Padano e da anni collaboratore di Vinicio Capossela. Non un musicista qualunque, ma un amico già accolto questa estate nella “Hinson Family” in occasione del suo live allo Sponz Fest di Calitri, organizzato proprio dall’autore di “Ovunque Proteggi”. Il risultato è un continuo rincorrersi tra i due artisti: Micah, armato di chitarra e voce, sempre al limite del collasso e imprevedibile nel suo saliscendi emozionale, e “Asso”, impegnato a raccattare quel che resta della melodia in un panno morbido scaldato dalla lap steel.

La scaletta, come sempre, varia in base all’umore dell’artista, questa sera più che mai socievole. Nella prima manciata di canzoni, infila una doppietta da brividi con Take Off That Dress For Me, forse il suo brano più noto, e la meravigliosa Seven Horses Seen, entrambi dall’album “Micah P. Hinson and The Pioneers Saboteurs”. Il folk-gospel di God is Good spalanca la vista su vette che in un grigissimo lunedì sera come questo temevi rimanessero avvolte tra le nubi, mentre la più recente Oh, Spaceman riesce a portarti ancora più in alto, dove corre il cavallo di Johnny Cash.

La presenza di “Asso” è anche l’occasione per riprendere la versione originale di Diggin a Grave, con il banjo a dettare i tempi. Ma è con la cover di Please Daddy (Don’t Get Drunk This Christmas) di John Denver che l’artista americano riesce a strappare lacrime e sorrisi per ben due volte. La prima, quando interrompe il brano a metà strada a causa di un errore, e la seconda, quando la ripropone per intero durante l’encore, in una versione più tragica e sofferta.

L’ultimo regalo

Inutile soffermarsi oltre sui brani, perché l’intensità della musica di Micah P. Hinson resta intatta ad ogni live, comunque vada. In un silenzio rispettoso, macchiato a tratti da qualche risolino per i commenti di amara ironia del Nostro, il pubblico ha riempito la sala per lasciarsi inebriare dai racconti di un uomo che ha già vissuto tante vite, senza mai perdere la voglia di raccontarle una ad una.

Il gracchiare incerto di ogni singola corda, i respiri profondi tirati tra un verso cantato a squarciagola e una nuova boccata di fumo, sono gli ultimi dettagli che ti porti a casa anche sotto l’ombrello. Così come il saluto regalato un attimo prima di sparire nel backstage. Con una mano sventolata timidamente verso la platea e l’altra avvinghiata al suo amato succo di frutta in cartone. Un sorso alla tua, Micah.

Paolo