Milano, 14 febbraio 2019
Una ventina di ragazzi bevono birra in cortile. Sono quelli arrivati in orario, hanno il timbro già sbavato sul dorso della mano. I ritardatari, invece, sono incolonnati sotto l’albero di cachi in attesa di entrare. Ci ho messo anni a capire di che frutti fosse quell’albero. Poi una sera d’autunno me ne cadde uno sotto gli occhi. Perciò lasciatemelo dire: quello davanti all’entrata del Circolo Ohibò è un caco. Non un melograno, non un pesco. Un caco, il grande alleato del sistema immunitario.
Beh, lo dribblo con disinvoltura. Oddio, non così tanta. Poi mi dispongo in sala tutto compunto, ma i Cloud Nothings ancora non si vedono. C’è l’atmosfera delle grandi occasioni. Vorrei scrivere così: completamente sold-out, ma non lo faccio per ovvie ragioni di copyright. Un bel caldo umido, comunque, che mal si sposa con il mio cappellino foderato in pile. Lo infilo nella tasca della giacca e ritorno al mio posto. Sono un po’ defilato. «Terza fila a destra», scrivo a un amico. Ma so già che ci vedremo solo a fine concerto.
Sì, perché ho intenzione di avanzare, di conquistarmi il centro della platea. Mollo due spintoni al primo accenno di pogo e ci sono, che sarà mai. Intanto provo a mettermi in punta di piedi, così vedo qualcosa, perché l’altezza non è assolutamente il mio forte. Davanti a me ci sono tre giovincelli che ai tempi del primo album andavano alle medie, parliamo del 2009 o giù di lì. Ci sono anche un paio di insospettabili canuti e un folto gruppo di trentenni. L’eterogeneità, che bella cosa.
Perfetto, ho un corridoio libero in cui infilarmi. Porta dritto alla spia del basso, meraviglioso scoglio di approdo. Impassibile e fiero. Ma non mi devo distrarre, perché i Cloud Nothings fanno finalmente il loro ingresso.
Jayson Gerycz alla batteria si prende subito la scena. È al centro del palco, in posizione avanzata. Cappello e occhialini da nerd, braghe corte e dentoni da castoro. È magrissimo, quasi scheletrico. Parte Leave Him Now e questo campioncino di tecnica prestato al punk inizia a macinare i chilometri sudando come un porco.
Jayson ha un suono enorme, sempre lievemente “indietro”, volutamente slegato e puntellato di sincopi. Un suono complesso, dunque, nonostante l’uso del solo rullante e di un timpano. Senza nulla togliere alla propulsione, si intende. Anzi, quando attaccano con il singolo The Echo of the World, sembra di stare sotto una pioggia di proiettili.
Certo, gli occhi sono puntati anche sul leader della band, Dylan Baldi. Lui che è l’unico e vero titolare del progetto Cloud Nothings, preferisce stare in disparte, per quanto possibile. Indossa una camicia di flanella e una felpa in acetato di cui non oso immaginare la temperatura interna. Mette le mani avanti e dichiara di non essere in formissima. Poi inizia a urlare fino a perdere la voce. Intona Dissolution, So Right So Clean, Another Way of Life e completa così il filotto tratto dall’ultimo bellissimo album “Last Building Burning”. Poche pause, moltissimo spirito. Se l’effetto di un raffreddorino è questo, ben venga il raffreddorino.
La seconda parte del set è dedicata alle vecchie hit. Il cuore salta subito in gola e il pubblico si stringe intorno a Dylan, che accenna un raro sorriso dietro agli occhiali appannati. In quella smorfia si intravede tutto l’universo Cloud Nothings: parlare al mondo è terribilmente difficile, ma ho bisogno di farlo, ne va della mia sopravvivenza, e allora te le suono, te le grido in faccia, ma resto sempre sulle mie; tu puoi ballare o andartene via, comprendermi o bullizzarmi, non mi interessa, questo sono io. Questo è Dylan Baldi.
Now Hear In, Enter Entirely e Psychic Trauma basterebbero a convincere tutti. La simbiosi a questo punto è completata. Imbocco lo spiraglio verso la spia del basso e mi aggrappo per non finire sul palco. I giovincelli urlano indiavolati: “Psychic trauma returns with age!”. È la mia preferita e decido di alzare anch’io il ditino verso il soffitto nero dell’Oibhò. Qualcuno si fa sollevare e finisce chissà dove. Bye bye baby.
Alla fine c’è spazio anche per gli anthem Stay Useless e I’m Not Part of Me. Non è rabbia, ma nemmeno gioia di vivere. Sono le frustrazioni che vengono fuori in formato schitarrata. Quando la band rientra nel backstage, la folla canta una canzone di chiesa che francamente non ricordo. Scelta opinabile per richiamare un gruppo su un palco, ma ormai vale tutto. Manca soltanto Wasted Days, e Wasted Days sia. La coda noise del brano scodinzola impazzita per cinque minuti buoni.
A mezzanotte la furia si placa. C’è ancora un sacco di gente, ma è tutto più tranquillo. Scartato di nuovo il caco all’ingresso, fuori la città è sempre la stessa. Il bello è che puoi guardarla in modo diverso. Come quando incroci gli occhi e l’immagine si fa sfuocata. In quello sguardo obnubilato ci puoi vedere di tutto.
Paolo

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.