Introduzione: la chiamata alle armi
Avete presente l’espressione tipica di Joe Talbot mentre canta? Occhi spalancati, sopracciglia aggrottate. Paonazzo da far paura. Il baffone biondo disegna un ferro di cavallo perfetto intorno alla bocca divaricata. Le fauci ben in vista, come un leone che sbraita in cima al dirupo, il sudore che sgorga a fiotti dalla fronte. Più che il cantante degli Idles, è il ritratto della rabbia. Quando sbatte i piedi a terra, poi, come per disseppellire l’ascia nascosta sotto il palco, l’ardore si fa grido di battaglia e il condottiero solitario si trasforma nel generale di un esercito. I soldati siamo noi, minuscoli ascoltatori incapaci di imboccare da soli la nuova strada verso la rivolta.
Eppure la band di Bristol ci aizza con tenacia ormai da qualche anno. La prima chiamata alle armi squillò acutissima nel 2017 con il debutto su lunga durata “Brutalism”. Una scarica di pura adrenalina che attraversava una ventina d’anni di musica ribelle, dallo street-punk inglese al post-punk più aggressivo. Poi, nel 2018, è stata la volta di “Joy as an Act of Resistance”, ormai un classico moderno, scritto, diretto e interpretato con il medesimo piglio sovversivo dell’esordio. Questa terza prova (che sa tanto di esame di maturità) è incardinata sostanzialmente sugli stessi binari, ma ottiene un impatto se possibile ancora più devastante. Non tanto nella pregnanza, quanto in termini di digeribilità.
I suoni: più feroci, con qualche apertura
“Ultra Mono” è una pietra appuntita da ingoiare intera. Se provi a masticarla, ti ritrovi a sputare i denti con il palato intriso di sangue. La voce di Joe Talbot si fa ancora più accanita, le chitarre di Mark Bowen e Lee Kiernan più nervose e corrosive, la sezione ritmica più marziale e calcolata. Qualcuno, dopo il successo di pubblico ottenuto del secondo disco, si sarebbe aspettato un appiattimento dei suoni, o comunque una certa levigatura. Ma anziché smussare gli angoli, gli Idles hanno preferito trasformarli in punte acuminate. Con la rabbia di cui sopra, hanno scolpito la loro musica a martellate violente, ma molto ben calibrate. Il risultato è un’ulteriore evoluzione del famigerato post-punk di nuova generazione, che qui abbraccia alcuni clichè del rap, del math-rock, del grime e naturalmente del post-hardcore.
Insomma, la frequenza cardiaca resta la stessa, ma la pressione sanguigna tende a salire. Dopotutto, l’equazione è molto semplice. Cosa fai quando qualcuno o qualcosa ti impedisce di realizzare un sogno? Ma certo, ti incazzi. E quando subisci un’ingiustizia, una minaccia o un insulto da chi pensavi stesse dalla tua parte e nel quale riponevi la tua fiducia? Esattamente, ti incazzi ancora di più. La rabbia monta inesorabile, sfonda le pareti del fegato, lacera i freni inibitori, imbratta i marciapiedi di saliva e succhi gastrici.
I brani: (quasi) nessuna hit, ma è un bene
Nel primo brano, War, il conflitto tutto interiore dell’autore si traduce nell’onomatopea bellica del “takka tuk-tuk” e in una manciata di risate isteriche che, si spera, non lo seppelliranno. La successiva Grounds, già pubblicata come singolo e tra i brani migliori della tracklist, è un robottone sferragliante che marcia al ritmo di un cuore metallico. Inesorabile e fiero, lo scassone d’acciaio si scaglia contro chi da anni ci riempie di bugie. Sul finale, Warren Ellis dei Bad Seeds ci mette lo zampino.
Difficile estrapolare una vera hit, perché in “Ultra Mono” non c’è assolutamente nulla di radiofonico. Ma se è proprio necessario, scommettiamo sulla coppia Mr. Motivator e Model Village. La prima è un grottesco elenco di icone più o meno pop, masticate e risputate nel piatto in versione caricaturale. La seconda, più vicina ai primi due dischi della band, è un attacco agli stereotipi conservatori, con tanto di video animato confezionato da Michel e Olivier Gondry.
I cameo non mancano. Spazio allora al piano del cantautore pop-jazz Jamie Cullum nell’introduzione di Kill Them With Kindness e soprattutto alla voce di Jehnny Beth delle Savages nella cavalcata punk Ne Touche Pas Moi. Menzione particolare per Reigns: torbido, ostile e minatorio, questo brano procede a ritmo motorik e punta il dito contro la famiglia reale inglese, contro fascismo e razzismo, sbattendo la nobiltà al muro per un interrogatorio che difficilmente si potrà dimenticare. Ma guai a spegnere lo stereo a questo punto della scaletta, perché mancano almeno un paio di perle. A Hymn è una splendida “ballata” umidiccia e cupa, di quelle che ti lasciano l’amaro in bocca, mentre alla più muscolosa Danke spetta il compito di sferrare l’attacco noise finale, sul verso epico di Daniel Johnston “True love will find you in the end”.
In conclusione
Che dire, dunque. Questo “Ultra Mono” conferma la credibilità di una band all’apice del successo, con buona pace dei suoi (comunque pochi) detrattori. Le polemiche sull’autenticità del loro messaggio sollevate in passato da alcuni gruppi affini (Sleaford Mods e Fat White Family in testa) risultano piuttosto sterili, biliose e francamente poco interessanti di fronte all’ennesima prova di evidente forza giocata dagli Idles in questo terzo disco. Un lavoro che rifiuta il compromesso e insiste su suoni ancora più brutali, morbosi e per certi versi disperati rispetto ai due album precedenti. Il problema, semmai, potrebbe essere la continuità. Ma finché c’è rabbia, c’è speranza.
Paolo
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.