Decollo, Atterraggio, Rapimento. Siamo stati a Ypsigrock 2016, eccovi il nostro live report.
Sarà anche banale, ma quando vado in Sicilia mangio un sacco di granite. A colazione, a merenda. Se ci sta anche dopo cena. Sempre e solo granita ai gelsi, si intende, perché a Milano non esiste. Ma con il tempo ho imparato che i gelsi rendono al meglio se abbinati al limone. Ecco, ho pensato che Ypsigrock è come una granita ai gelsi, con una cucchiaiata di limone. Perché per rendere un festival così gustoso e genuino, non basta una lineup con i fiocchi come quella di quest’anno. Tutto intorno, in un sapore che lo rende perfetto, deve sciogliersi il sorriso delle persone che a questo festival dedicano tanti sforzi e l’atmosfera irripetibile che ogni estate esplode nel piccolo borgo medievale di Castelbuono. Al main stage di piazza castello e a quello un po’ defilato al chiostro di San Francesco, in questa ventesima edizione di Ypsigrock (sì, ventesima) si è aggiunto un nuovo palco. Quello allestito nell’ex chiesa del Crocifisso, fuori vecchia e dentro bianchissima, oggi sconsacrata per la gioia dei bestemmiatori feticisti.
Decollo.
Il nostro festival incomincia da qui. Dalle dolci note di Birthh e dalla sua voce difficilmente catalogabile, se non nell’ampia sezione aurea che parte dalla timidezza, dai tremori post-adolescenziali, e arriva dritta a una maturità musicale precoce e sorprendente.
Sotto il vecchio altare del crocifisso si suda durissimo ma si medita alla grande, tipo ashram di Pune. Per non parlare delle preghierine che lancio ai piedi della Venere Cipria quando attraverso l’antico ingresso di Ypsigro. “Dea, tieni lontana la pioggia, dea”. Preghiera accolta, via libera. E allora tutti alla corte dei Ventimiglia per assistere alla vera sorpresa di questa edizione: The Vryll Society da Liverpool. Sono cinque pischelli inglesi che fino a ieri cenavano a capricciosa e vino alla premiata pizzeria “U’ Trappittu”. Oggi, invece, si muovono sul palco con l’aria di chi ha già digerito nell’ordine: The Verve ricetta tradizionale, Stone Roses dell’89, Mercury Rev e ruttone finale al krautrock. Uoh! Poi tocca a Oscar, principe del malvestire. Suona come Moz, ma col sorriso stampato e una camicia hawaiana di una taglia in più. Non è detto che sia un bene, ma ai dinoccolati in transenna piace assai. Anima e corpo, però, sono pronti a bruciare per i Mudhoney. E che Mudhoney, ragazzi! Mark Arm si scatena nonostante il lieve sovrappeso e sfodera una scaletta amarcord che pesca a piene mani da “Superfuzz Bigmuff” e un misto griglia garantito. Sotto si poga, niente da dire. Qualcuno guarda sconcertato dall’alto, ma questa è la storia e non si discute. The Vaccines? Voto 7,5.
Atterraggio.
Come si dice? #day2? Boh, ci sono i Luh e i Crystal Castles. Il resto me lo perdo in gita a Cefalù, dove si alternano: balli di gruppo in spiaggia, caponata a merenda e un mostruoso uragano che a momenti minaccia di far saltare la duecentotrentunesima edizione della ‘Ntinna a Mari, un contest di arrampicata su un palo saponato. Per la cronaca vince il giovane Antonino Papa, eroe locale, giustamente premiato dal sindaco Rosario Lapunzina (in estasi). Ma torniamo al festival. I Luh esaltano ben più del palo saponato. C’è qualcosa di magnetico e intrigante nella loro musica. Quel che su disco lascia perplessi, nell’esibizione live si annienta. Climax ascendente e indice alzato in segno di approvazione. I Kiasmos danno buca a causa di un incidente. Poco male, ci sono i Crystal Castles. Un concerto pieno di energia, direbbe Mollica in un servizio in coda al Tg1. E il cortile del castello si trasforma in un pistone da ballo. Anche là sopra, vicino alle birre, il piedino non riesce a stare fermo.
Rapimento.
Mi risveglio provato dall’umidità. Questa volta la Venere Cipria non può niente. “Sarò mediocre, voglio solo dormire, dea”. Ma per me è il giorno più importante. Al chiostro di San Francesco ci sono i Giant Sand di Howie Gelb. Per questioni di spazio riassumo così: impeccabile eleganza, hashtag #emozioni, brividi assortiti, chitarre da urlo, Tumble & Tear. Può già bastare, ma succedono due cose. Dopo il concerto, Howie Gelb si siede ai tavolini del “Cin Cin Bar” e si mostra sinceramente interessato al capocollo nostrano. Sembra un bambino con i baffi al luna-park dei salumi. E poi al castello ci sono i Minor Victories al loro esordio in Italia. Splendidi, magici. Non è ancora finita: salgono le Savages e sfondano il muro del suono nel consueto live dinamitardo. Chiudono i Daugther tra le lacrime del pubblico e quelle di Elena Tonra.
Poi tutto finisce, all’improvviso. La mattina dopo, in paese, i reduci ciondolano alla ricerca di un souvenir. Cala il sipario, e come da copione dovrebbe rimanere l’amaro in bocca. Ciò che resta di Ypigrock, invece, è quel buonissimo sapore di gelsi e limone che da vent’anni rende questa nostra estate una stagione migliore. Un abbinamento che crea dipendenza e non stanca mai. E allora arrivederci all’anno prossimo, senza rimpianti, senza nostalgia. Godiamocelo questo sapore.
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a cura di Paolo Ferrari
Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.