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Crack Cloud – Pain Olympics – Recensione

Primo vero e proprio album (il precedente era in fin dei conti l’unione dei precedenti EP) per l’eccentrico collettivo di Vancouver che risponde al nome di Crack Cloud, nato dalla mente del batterista e cantante Zach Choy. Uno dei prodotti più interessanti di questo assurdo 2020.

L’apertura di Post Truth ci porta subito in atmosfere alienanti, tra post-punk serrato e new-wave più ricercata, con aperture sonore quasi eteree, creando illusioni calcolate quanto stranianti. Le successive Bastard Basket e Something Gotta Give, sezione ritmica profonda e claustrofobica, non allentano certo la presa nel disorientare l’ascoltatore.

Difficile capire con che cosa abbiamo a che fare: Talking Heads, si legge in giro, ma anche gli echi di Wire e del post-punk più plumbeo sono lì ad aleggiare minacciosi. The Next Fix apre però uno spiraglio più funk ed esotico, mentre Favour Your Fortune graffia con un rap suburbano e disturbato.

Con Ouster Stew si cambia ulteriormente registro e si strizza l’occhio ai Devo con energia e ambizione danzereccia. L’improvviso assolo di batteria e quello di sax nel finale esaltano la vena propulsiva che sfocia nell’incedere sfacciato di Tunnel Vision, che a sua volta deflagra in una coda di chitarra elettrica nevrotica. Angel Dust, in chiusura, sembra invece riportarci in una dimensione cruda, ascendente e spirituale, con rimandi ai primi, più espressivi e teatrali, Arcade Fire.

Con questo LP i Crack Cloud hanno spostato le lancette su un art-punk retrofuturistico a tinte 80’s. Un ipotetico giorno del giudizio, in cui confluiscono tanti impulsi e altrettante giocate, senza che il meltin pot risulti stucchevole. Al contrario, per quanto falotico e stravagante, se ne vorrebbe di più.

“Pain Olympics” è caotico, disordinato, non convenzionale, lunatico, impegnativo da catalogare, ben lungi dall’easy listening e di certo non immediato: ma forse, proprio per questo, è un’esperienza delle più consigliate.

Anban