“Oggi si pubblica più musica in un solo giorno rispetto all’intero 1989”. Ad affermarlo è stato Will Page, chief economist di Spotify, in un’intervista pubblicata su Music Radar. Dal report “State of the Music Creator Economy” di MIDiA, è infatti emerso che nel 2023 i “creatori” di musica sono stati addirittura 75,9 milioni. E il dato è naturalmente in aumento.

Come possiamo commentare tutto questo?

Innanzitutto è lecito chiederci il perché di una crescita così esponenziale. Non siamo discografici né produttori, tantomeno analisti. Dunque possiamo solo fare ipotesi, ma è molto facile. Le possibilità sono due. La prima è che sia improvvisamente esplosa una bolla di creatività. Milioni di persone potrebbero aver scoperto di avere una vena artistica a cui era necessario dare sfogo. La seconda, meno romantica ma più realistica, riguarda l’accessibilità al mercato. È finita da un pezzo l’epoca in cui le band della scuola registravano la demo su cassetta e la distribuivano a una decina di compagni per cinquemila lire. Oggi chiunque faccia musica, o pensi di farlo, può pubblicare il proprio prodotto in modo autonomo e renderlo potenzialmente fruibile al mondo. Tutto ciò, ovviamente, comporta delle spese spesso importanti per i “creatori”, a fronte di una remunerazione nella gran parte dei casi ridicola.

Ma per quanto gravissimo, quello della remunerazione è un tema che va affrontato a parte. Visto che a indie-zone ci occupiamo soprattutto di contenuto, cioè di valutare la bontà o meno della musica che viene pubblicata, l’affermazione di Will Page ci spinge piuttosto a fare una considerazione nel merito. Nulla di particolarmente acuto, ma basato semplicemente sulla logica e sulla statistica. L’aumento massiccio di pubblicazioni, possibile solo grazie alla facilità con cui tutti possono produrre musica e metterla in rete, corrisponde inevitabilmente a un costante calo della qualità. Le decine e decine di dischi e singoli che ogni giorno ci piovono addosso da ogni angolo del globo potranno mai essere tutti, non dico capolavori, ma almeno validi prodotti? La risposta è chiaramente no.

Voi mi direte: beh, basta scremare, qualcosa di buono si trova sempre. Questo è vero, ma solo in parte. Perché in giro c’è tanta di quella fuffa che è difficile liberarsene. È come provare a svuotare con un secchiello una nave che continua a imbarcare acqua. Prima o poi si affonda. Il risultato è l’appiattimento generale, l’adeguamento a uno standard non più così tanto alto, una sostanziale mancanza di preparazione e professionalità e l’idea che tutti possano avere successo. In una situazione del genere, anche le nostre orecchie, a furia di navigare in questo mare di mediocrità, si abituano a prendere per buono quello che un tempo, quando si produceva meno, sarebbe stato accantonato.

Pensiamo al fantomatico 1989. Quell’anno uscirono “Doolittle” dei Pixies, “Disintegration” dei Cure, l’omonimo degli Stone Roses, “Bleach” dei Nirvana, “Paul’s Boutique” dei Beastie Boys e “3 Feet High and Rising” dei De La Soul, tanto per citarne qualcuno. Considerando che quest’anno è stata pubblicata, stando alle parole di Page, una quantità di musica trecentosessantacinque volte superiore rispetto a quella del 1989, quanti dischi sono usciti sullo stesso livello di quelli sopracitati? Per quanto mi riguarda, pochissimi. Anzi, forse nessuno. La storia mi smentirà, ma la musica oggi non mi pare in buona salute. Molto probabilmente anche a causa di questa sovrapproduzione incontrollata.

Ma c’è un risvolto positivo. In questo contesto, la critica può e deve tornare a svolgere un ruolo determinante. Si assuma le proprie responsabilità e la smetta di premiare con così tanta considerazione chi in realtà non la merita.

Paolo