Gli australiani Boy & Bear, che quest’anno compiono dieci anni di attività, sono sempre stati un mix, a volte riuscito altre meno, fra il nuovo folk-pop vicino a Mumford And Sons e Fleet Foxes (cioè niente a che vedere, ahimè, con Pete Seeger e Woody Guthrie) e l’indie che guarda più ai Coldplay che ad altri artisti davvero indipendenti.

In questo quarto lavoro in studio, David Hosking (voce e chitarra), Killian Gavin (anch’egli voce e chitarra), David Symes (basso), Tim Hart (batteria, qui la recensione del suo disco solista) e Jonathan Hart (banjo, mandolino e tastiere) spostano il loro baricentro con prepotenza verso un pop di fattura quasi orchestrale. Se le melodie sono spesso a livelli di bontà tali da ricordare quelle cantate da Michael Stipe, la voce di Hosking, purtroppo, il più delle volte non può non far pensare a quella del Chris Martin più recente.

Di folk (anche di quello nuovo), invece, c’è rimasto ben poco, giusto la strumentazione e qualche costruzione musicale. Tutto da buttare quindi? No, qualcosa di buono lo si trova, soprattutto quando il gruppo decide di allontanarsi dalla via maestra designatasi. L’introduttiva Walk of Art è una piacevole cantilena che piano piano cresce fino ad esplodere in epicità nel finale, Telescope e Rocking Horse schiacciano l’acceleratore su un gradito rock chitarristico, la conclusiva Vesuvius ricorda l’alternative più onirico dei Nineties ed è veramente una bella e suggestiva canzone.

Andrea Manenti