L’ex chitarrista dei Tronco (band genovese di cui vi abbiamo già parlato qui) ha esordito come solista a nome Bacher con un EP di quattro tracce intitolato “Intra”. Si tratta di brani ben cesellati e “massaggiati” che meritano davvero un ascolto: ne abbiamo parlato direttamente con l’autore per sapere come sono nate e dove vogliono arrivare. «Questi primi quattro brani sono la prima puntata di quello che poi sarà il full album – spiega – c’è già qualche brano pronto, spero di pubblicarlo tra la primavera e l’estate prossima».
Anyone, la traccia iniziale, ha un giro portante di chitarra che sembra il frutto della scomposizione di arpeggi soffusi fatti chirurgicamente a pezzi e riassemblati per costruire una melodia accattivante e spensierata; la batteria semplice, ma quasi stomp, entra solo per sostenere il ritornello che sviluppa come una filastrocca la strofa. La traccia riprende il riff dell’inizio con una serie di suoni spalmati sulla melodia portante, per poi tornare alla parte cantata. Prima ancora del secondo ritornello, il tutto finisce come un coitus interruptus. «Si tratta del pezzo che ha dato il LA al progetto, è stata la prima a nascere. Il testo viene da “first blues” di Ginsberg, I can’t find anyone who wants to police the wind. Curiosità: il giro di chitarra è nato come musica per un cortometraggio in bianco e nero».
Balm Girl, la canzone successiva, ha una melodia vocale simile alla precedente, ma il riff è più inquietante, anche per il suono vagamente distorto della 6 corde, ma senza essere cupo e sovraccarico di tensione. La melodia si sviluppa con un afflato quasi swing, supportato di nuovo da una ritmica minimale. A fine traccia, un assolo art déco abbellisce il tutto. «Qui il testo nasce da qualche riga di “Martin Eden” di Jack London – precisa l’autore – nello specifico quando lui incontra per la prima volta Ruth. La produzione del brano riassume molto bene quello che avevo in mente: rock o folk con un beat elettronico minimale, ruvido, ma anche glitch e industrial; come disse un amico quando lo sentì per la prima volta: tra il cosmico e il casalingo».
Dynamite Tree ha un arpeggio e degli armonici vagamente math rock, bilanciati da un cantato quasi MPB degno di Caetano Veloso. «Questo brano è nato in un pomeriggio, poi l’ho registrato tutto il giorno successivo, chitarre, basso, organo. Alexandros (Technoir), il ragazzo che si è occupato della parte elettronica, ci ha dato quella punta in più di neu soul».
Green Rain, la canzone finale, propone una melodia pestifera, che piacerebbe a Bjork e sarebbe piaciuta a Syd Barrett. Il ritornello si strozza e finisce per zoppicare con un andamento da gru acquatica. Un assolo di chitarra che punzecchia come uno stormo di moscerini di laguna completano l’acquarello. «È il brano dove tiro fuori di più la mia vena sognante e i miei ascolti psichedelici seventies più naif, hai detto bene con Syd».
C’è gusto per la melodia, ma anche per la texture e per l’arrangiamento ben organizzato. C’è equilibrio come nei Tronco, anche se qui siamo dalle parti del pop sofisticato e non del loro primitivismo da camera. Sembra di sentire un lavoro di editing o effettistica sulle 6 corde che ricorda certo rock elettronico dalle parti dei Magnetic Fields. «Dici bene per quanto riguarda l’editing della chitarra – aggiunge Bacher – c’è stata una cura particolare ovviamente essendo chitarrista, ci tenevo suonasse in un modo, infatti ho scelto proprio Alexandros Finizio come produttore perché mi piace il suo gusto sulle 6 corde e sull’elettronica. Gli arpeggi e gli inserti di batteria sono assolutamente voluti, anzi nascono proprio perché volevo che il beat fosse quel colore, quell’ ingrediente, per avere quel sound più internazionale, più pop e soul, ma sempre tra il cosmico e il casalingo».
Nelle tracce dell’EP si sente l’eleganza dei Blonde Redhead, ma anche un gusto melodico tipicamente italiano, perché la musica proposta è molto meno “puritana” di quella del gruppo newyorkese. I giri di chitarra su cui sono costruite le composizioni sono come un corsivo spigliato, non come un maiuscolo da titoli strillati. Inoltre questo gusto per la mossa ad effetto è bilanciato da una sorta di meccanismo censorio per cui prima dello sbraco nel pop barocco ogni velleità di volo pindarico viene smorzata con delicatezza ma decisione, producendo la sensazione di una ricerca di equilibrio, moderazione, chiamatela come volete, che si sentiva anche nei Tronco, un gruppo che riesce ad essere freak e cameristico nello stesso tempo.
«Sono molto contento che sia arrivata quella sensazione di equilibrio e moderazione – conclude l’autore – ci abbiamo lavorato molto, il progetto nasce dal desiderio di scrivere belle canzoni con tutto al posto giusto, bei giri di chitarra, testi con una storia da raccontare, arrangiamenti studiati, voce con una bella linea melodica, ma con quella soluzione ruvida, poco intelligibile, che non ti aspetti. Cose che non ho mai fatto e che trovo siano molto difficili da fare. Una bella canzone la devi sentire e risentire, non si svela al primo ascolto».
Alessandro Scotti

Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.