
Già noto per il suo lavoro con Japanese Gum e TRÓNCO, il genovese Davide Cedolin è uscito su bandcamp con un’opera di quattro tracce che riassumono coerentemente il suo percorso e vi imprimono uno scatto, una fuga, lodevoli: l’atmosfera sognante l’accompagna dal suo passato remoto, il tono acustico viene dal suo passato recente, ma questa cura per i dettagli e la ricerca parimenti della soluzione minimale sembra invece una conquista recente e tutta sua.
Le tracce profumano di folk, di legno fresco tagliato con precisione, di blues, ma anche di psych, post e math rock. Un disco che cuoce lento, ma che sotto le ceneri nasconde un utopismo zen. Nel dettaglio, l’iniziale ed eponima canzone ricorda certi
Pink Floyd agresti di “Ummagumma”, la successiva
Repair è piuttosto un bozzetto primitivista americano, tra John Fahey e
Devendra Banhart. Segue
As safe as tombs, che passeggia a tempo di blues e ondeggia al ritmo del canto delle cicale, per poi svilupparsi in una ballata dal gusto quasi pop. Chiude
Somewhere, la più “matematica” delle canzoni presenti, l’unica dove le curve smussate si fanno davvero tagli angolari. Un disco che suggerisce ulteriori sviluppi fruttuosi da tenere sotto osservazione.
Abbiamo intervistato Davide Cedolin per scoprire qualcosa di più sul disco e sul suo percorso musicale. Ecco dunque il risultato della nostra chiacchierata:
Ciao Davide, che fine hanno fatto gli altri tuoi progetti, li hai abbandonati o sono sempre attivi
TRÓNCO esiste sempre, e ne continuo a fare parte. Abbiamo un album che uscirà in vinile il prossimo autunno al quale stiamo lavorando. Tutte le mie esperienze musicali in qualche modo hanno nutrito questo percorso, anche i Japanese Gum (terzo disco in uscita in inverno). La cosa che mi sento di dire è che ad un certo punto ho avuto la necessità di concentrarmi su quello che mi ha sempre spaventato, spogliandomi di effetti ed elettronica, prendendomi la responsabilità di rendere comprensibili i testi e il cantato, raccontando di cose personali in modo semplice. Già da qualche anno ho deciso di mettere in secondo piano la composizione elettronica per svariati motivi. L’urgenza di scrivere e la mia vita stessa, che negli ultimi anni si è spostata sempre più lontana dalla città e da un certo modo di intendere le cose, hanno fatto il resto.
Come mai hai scelto di dare tanto spazio al cantato?
Riguardo al cantare, l’ho sempre fatto, ma mai in un modo come questo, così esposto e in un certo senso proprio di una certa tradizione. I testi di “In the valley with the mules”, come le altre cose che scrivo da qualche tempo ormai, sono stralci di vita personale che si aggrovigliano dentro spazi onirici, raccontati preoccupandomi relativamente della narrazione spazio-tempo, preferendo focalizzarmi su suggestioni visive. Una sorta di meditazione visiva dove si innescano meccanismi inconsci che si celebrano scrivendo. Spero possa essere comprensibile. Non sono un cantante nel senso stretto del termine, sto imparando a svolgere questo ruolo in modo funzionale, all’inizio pensavo che la voce fosse marginale nell’insieme, ma andando avanti mi sono reso conto di quanto in realtà tutto debba andare avanti di pari passo. Questo non significa che un pezzo debba uscirmi di botto con voce e chitarra insieme; registro spesso lunghe improvvisazioni e meditazioni con la chitarra, e capita che magari dopo quindici minuti di flusso libero, l’attenzione si posi su un particolare movimento, un particolare intreccio di note che in quel momento si isola e prende vita propria. Da lì, da quel passaggio nascono delle melodie o degli humming, e quindi un pezzo nel pezzo.
Questo è come di solite avviene la creazione. La struttura si consolida sul testo, che a volte è breve e preciso nella metrica, a volte lungo ed irregolare.
(Il testo di Repair, una delle tracce dell’EP, rende bene l’idea di quanto ci ha raccontato Davide stesso a propostio delle parole che ha scelto, ndr.):
Most of the tiniest things slip out of the pockets
Embracing a stranger is more than a locket
Being compassionate seems to be awkward:
at least for one day just try to repair.
So many words used as glue
so many stories split in two
There’s a light that smooth the edges
There’s a light that blinds you.
Most of the tiniest things slip out of the pocket
Embracing a stranger is more than a locket
Being compassionate seems to be awkward:
at least for one day just try to repair.
Quando hai realizzato questo disco? Dalla data di uscita si potrebbe pensare che è “figlio” della pandemia…
La realizzazione dell’EP è avvenuta lo scorso aprile in pieno lockdown, quindi le registrazioni sono state fatte a casa; di conseguenza l’idea di lasciare spazio a quello che avevo a disposizione. La questione Covid-19 ha scombussolato il mondo, a livello personale a marzo e aprile avrei dovuto finire il mio primo album, che è stato rimandato per questioni pratiche, quindi da aprile ho iniziato a lavorare in parallelo a cose che avrei potuto completare in autonomia; per quanto talvolta lento nell’elaborazione, sono molto produttivo a livello di idee e non potevo mettermi una pausa. Nel disco che dovrebbe vedere la luce il prossimo autunno/inverno ci saranno arrangiamenti polistrumentali in quasi ogni brano, con la partecipazione e il supporto di cari amici, nonché ottimi musicisti.
Alla base dell’idea di suonare questi pezzi c’è la questione che per me è principale: avere la possibilità di suonarli in acustico da solo con voce e chitarra oppure con la band. Mi interessa che i brani che scrivo possano avere elasticità di esecuzione.
Mi dicevi di come l’accordatura aperta della chitarra abbia cambiato il tuo modo di sfruttare lo strumento, ce ne vuoi parlare?
Il mio modo di suonare la chitarra è abbastanza diretto, primitivo, rozzo; non c’è un filtro di pulizia, non c’è quel garbo che mi sono sentito dire avere nella voce. Per me suonare la chitarra significa liberare un flusso, un torrente in piena, quando arriva la calma e la delicatezza è perché la natura del suono giunge ad un suo apice e necessita ristoro.
In questo senso suonare con un’accordatura aperta mi facilita, mi permette immediatezza, maggior libertà.
Suono con accordatura CGCEGC muovendo il capotasto in base alla tonalità. È un’accordatura melodica che mi lascia molto spazio a livello di suono; sfrutto molto le vibrazioni delle corde “a vuoto”, creano una risonanza armonica di fondo che mi piace molto. Le accordature alternative alla classica EADGBE mi affascinano, scoprii un mondo con i Sonic Youth, così come successivamente ne scoprii un altro, meno ortodosso e più codificato volendo, innamorandomi della Vestapol con le sue varianti grazie al Piedmont blues e ad altre forme di folk tradizionale americano. Personalmente più suono con accordatura aperta e più non sento il bisogno di tornare a una standard. È come se il mio cervello funzionasse in modo più naturale e trovasse maggiori riscontri suonando così.
A cura di Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.