C’è un momento preciso, ogni anno, in cui l’estate inizia a sbiadire. Non finisce davvero, no — continua ad accendersi qua e là in una luce dorata di fine pomeriggio, nei vetri tremolanti delle auto parcheggiate all’ombra, nella risacca che resta sul corpo dopo un tuffo. Adagio, il nuovo album di Σtella, è tutto lì: in quel bordo tra il caldo che resta e il fresco che arriva, tra la nostalgia di qualcosa che è stato e la sospensione di ciò che forse non sarà mai. La cantautrice greca — al secolo Stella Chronopoulou — torna con il suo quinto lavoro in studio e secondo per la Sub Pop Records, casa madre di quell’indie rock americano che pare lontanissimo dalle sponde del Mediterraneo eppure, in questo caso, stranamente affine. Adagio è una deriva dolce, un’ode alla lentezza, un diario intimo scritto a bordo di una nave che solca l’Egeo e che, a tratti, sembra fluttuare più che navigare. Ci sono dischi che si impongono. Altri si insediano. Adagio appartiene alla seconda categoria. Non invade, non pretende, non urla. Arriva piano, s’insinua tra le pieghe del quotidiano, si appoggia con grazia sulle tempie e sulle caviglie come il vento di settembre che ti entra da una finestra socchiusa. Stella lo ha concepito così: a bassa velocità, come si fa con le cose che contano. Lo ha iniziato quasi per caso, durante un viaggio in barca verso Anafi — una di quelle isole da leggenda, dove si dice che Apollo stesso abbia fatto sbucare la terra dal mare. Un viaggio reale, certo, ma anche simbolico: undici ore di onde e cielo che si sono trasformate in musica, in parole per la prima volta scritte nella sua lingua madre. Il greco, qui, non è una scelta etnica o folkloristica, ma una riconquista. Un ritorno alle origini. Una lingua che culla e protegge, come le melodie che intessono questo disco. Il brano d’apertura, Adagio, è già una dichiarazione d’intenti. Un samba ovattato da camera da letto, dove la voce di Σtella si fa spia con “400 occhi” che la trasportano “da A a B”. Un pezzo che danza lieve su nylon e percussioni, domandando senza insistere, accarezzando senza stringere. È l’inizio di un percorso che si muove tra desiderio e assenza, tra partenze e ritorni mai davvero completi. Ta Vimata è un omaggio a Litsa Sakellariou e alla New Wave greca del ’69: un cover che vibra di mistero retrò, che cammina in punta di piedi tra gli echi di una Grecia sognante, trasfigurata. In Omorfu Mou, Σtella si apre con dolcezza al sentimento: “Mi manchi quando vai via”, canta, e la frase si dissolve come un soffio d’aria salmastra. Subito dopo, Baby Brazil (con la collaborazione di Las Palabras) invita a lasciar fluire il sentire, tra loop ipnotici e un groove che scivola sotto pelle. Can I Say è forse il momento più scoperto e vulnerabile: una confessione sussurrata, un voler dire troppo e trattenersi comunque. 80 Days si muove acustica tra regole e libertà, mentre Too Poor gioca col desiderio, con un beat che ondeggia come una piscina alle sei del pomeriggio. Poi Corfu, un brano strumentale che è una cartolina sonora dalla costa ionica: pochi elementi, un respiro lunghissimo. Chiude il cerchio Caravan, un congedo che abbraccia il Tempo come unico vero compagno di viaggio. Musicalmente, Adagio è fatto di materia gentile: chitarre di nylon che non graffiano, ma accarezzano; tastiere psichedeliche come acquerelli sciolti; percussioni leggere che sembrano passi su sabbia calda. Ma sotto la superficie c’è una struttura solida, cesellata con attenzione quasi invisibile. Σtella non ha bisogno di stupire: le basta evocare. In questo senso, il lavoro di produzione è perfettamente coerente: nulla è fuori posto, eppure tutto sembra imperfettamente umano
Ogni brano è un piccolo santuario in cui si può sostare, prendere fiato, chiudere gli occhi. C’è qualcosa del dream pop, ma anche del folk mediterraneo, del soft rock anni ’70, del minimalismo elettronico. Ma ridurre Adagio a un gioco di generi è come cercare di spiegare un sogno raccontandone solo la trama. Il punto, forse, è proprio questo: Adagio non racconta una storia. La sospende. Non cerca risposte, ma domande che galleggiano come conchiglie sul fondo di un’acqua limpida. Σtella ha trovato un modo tutto suo di raccontare l’intimità: non come confessione dolorosa, ma come spazio sicuro in cui ci si può rifugiare, anche solo per 35 minuti. È un disco che ci invita a rallentare, a non correre, a fermarci ad ascoltare il battito lieve delle cose che non fanno rumore. A volte serve proprio questo: un piccolo Adagio in un mondo che va troppo forte.

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.
