why making a new record,
it’s such a sunny day;
and yet you care so much,
feel like you lose your game, set, match

Di cosa parliamo quando parliamo di A Minor Place? Se escludiamo quella magnifica canzone di Bonnie Prince Billy, forse parliamo del “segreto meglio custodito” in ambito indie-pop italiano.

“It’ll End In Smile” è il titolo del loro secondo album, autoprodotto e pubblicato dalla loro etichetta discografica Lost Without You Love; un titolo che invita subito ad arrendersi senza opporre resistenza davanti a un sorriso e già racconta una parte della filosofia dietro la loro musica. “All’inizio doveva essere un disco spartano, senza fronzoli. Una decina di canzoni, registrate alla bell’e meglio, copertina anonima”, raccontano gli AMP. Alla fine è uscito un disco doppio, 25 brani, come sempre curatissimo, dalle grafiche ai materiali, con un lato di sole cover.

Ritorniamo al titolo, che gioca con altri titoli di dischi: il debutto dei This Mortal Coil “It’ll End With Tears” e “Smile”, il mitologico disco perduto di Brian Wilson. Destinato fin dall’inizio ai “poplover” denso di citazioni nel titolo, nei testi e nella musica. Il disco è una testimonianza del percorso artistico che gli AMP hanno costruito in tutti questi anni. “Una sorta di album fotografico”, ha raccontato Andrea Marramà, la metà con la barba del progetto.

Di cosa parliamo dunque quando parliamo di A Minor Place?

Parliamo di una band che comincia a suonare dal 2013, dall’infatuazione di una coppia per l’indie-pop degli anni ’80. I nostri Georgia Hubley e Ira Kaplan: un basso nuovo da mettere al lavoro e scaffali pieni di dischi. Le intuizioni partono dal singolo, ma non potrebbero mai realizzarsi senza la condivisione e l’apporto determinante della coppia e poi del collettivo (sul palco possono arrivare a nove elementi). Parliamo di una confraternita allargata di nerd musicofili e anime affini con cui hanno da anni stabilito un legame profondo. Le canzoni degli AMP parlano di/a ognuno di noi, storie di timidezza e piccoli gesti, raccontano un circolo di affetti, partendo da un nucleo centrale formato da Andrea e Roberta. I due condividono un amore sconfinato per la musica che si allarga ad anelli concentrici, straborda tranquillo verso la famiglia, dilaga travolgendo i sodali musicisti, gli amici, i fan.

Si inizia con When Silvia Leaves (da non confondersi con When Silvia Dies che chiudeva “The Youth Spring Anthology”) su un terreno meravigliosamente accidentato di chitarre asimmetriche, su un ritmo che sembra appena accennato, e la voce di Andrea ineffabile, ci fa tornare dentro l’universo degli AMP. Love ci porta verso il northern soul e viaggia su coordinate più familiari agli habitué degli AMP, un ritmo vivace e atmosfere sognanti. Dalle parti delle Marine Girls e dei tesori della Cherry Red o della Sarah.

Sad Songs rappresenta una delicata ma tenace rivendicazione al diritto di ascoltare canzoni tristi, che nel paese dei tormentoni que bailano sulla playa la noche loca, significa rivendicare anche appartenenza. Quella a una sparuta minoranza cresciuta struggendosi per le canzoni degli Smiths e dei Belle And Sebastian. Il brano nasce dalla storia di un ricovero in ospedale. La voce di Roberta culla l’ascoltatore, le melodie aprono il cuore in due e  finisce con un sorriso (appunto!) dolceamaro stampato in faccia.

M808 si sviluppa attorno a un riff sensuale quasi blues-rock, ma poi partono le voci e l’ago della bilancia torna a segnare pop, fino a che nel finale non si ferma la batteria, restano le chitarre, le voci, e poco di più. Quando partono i papapa ci riportano ad ascolti più twee friendly, il cielo diventa limpido, l’aria che si respira giocosa e rarefatta quasi come in un brano degli Architecture in Helsinki. In Sunglasses,  bastano l’intreccio di chitarre rumorose che implodono sullo sfondo e le voci dei signori AMP, per regalarci una giornata di sole in mezzo ai fiori (gli ascoltatori più fedeli del programma radiofonico Diskobox forse avranno riconosciuto un frammento di quel crescendo incantevole di chitarre).

In You, Me, Love, Life, Time, Day, World, Heart, Now, Up si divertono un po’ a fare il verso ai Los Campesinos mantenendo sempre quel difficile equilibrio tra schitarrate alla Teenage Fanclub e le voci che addolciscono lo slancio senza far perdere efficacia. Game, Set, Match incanta. Ancora una canzone di cui innamorarsi, un ricordo romantico, una sciarpa regalata, il tocco magico che non c’è più e un ammirevole sfoggio di autoironia sulla mancanza di autostima.

Christmas in Summer (Greetings from Aldo e Derna) si fa ricordare per un andamento sostenuto, scandito dal cantato di Andrea e sospinto dai backing vocals di Roberta verso vette celestiali dove a metà esplode una chitarra ruvida a sparigliare le carte in tavola. In Detune, meno di due minuti, si staglia una linea di chitarra nitida in primo piano e ribolle un fuzz spalmato in sottofondo; non possono non tornare in mente i Pastels e un po’ anche gli Yo La Tengo di “Sugarcube”. Memorabile anche l’apertura di Brooklin Bridge, dove fanno capolino anche degli handclapping e la chitarra si sporca solo un po’, infondendo grinta a un’altra chicca.

British Immigration From Pakistan ha un afflato inizialmente quasi psichedelico, per poi incanalarsi in binari di dolcezza e anche Viren disegna nella parte iniziale paesaggi onirici, ma quando entra la voce di Roberta sono sempre carezze. Poi nella parte finale tornano a rumoreggiare le sei corde. Canzoni come Yeti sono il motivo per cui ogni tanto gli AMP vengono paragonati agli Yo La Tengo senza che nessuno gridi al reato di lesa maestà.

Victor brilla di malinconia, un testo che celebra la mancanza, le cose e le persone che abbiamo perso, e lo fa con un understatement e una misura che incarnano sia la forma che la sostanza della musica degli AMP. M56 è bella come riappacificarsi dopo un litigio, Varse indurisce di nuovo i suoni, On Her Pad ci mette su un aereo per la Scozia jangly degli anni 80-90, lasciandoci fantasticare di un mondo parallelo dove Stuart Murdoch ha esteso il suo dominio fino alle pendici del Gran Sasso.

Total Football, uno degli highlight del corposo lavoro, veicola l’ammirazione per l’estetica degli anni ’70 tramite quell’icona di stile, ribellione e gioventù che esondava dall’ambito calcistico, l’Olanda di Johan Cruijff; il calcio totale, come grimaldello per parlarci ancora una volta di amore. Canc ci investe con la sua fragilità creata dal sovrapporsi di chitarre pulite e synth, con Roberta che ancora una volta ci ammalia, mentre And You And I si regge su un ordito leggerissimo e poi a metà canzone boom (spoiler), parte un campione rallentato di Don’t Stop ‘Til You Get Enough che ci si incastra e chiude il pezzo alla perfezione.

E poi le 5 cover finali, tutti brani già interpretati in passato.

Andrea ha sottolineato più volte – e l’abbiamo già detto –  che il progetto AMP nasce come pura dichiarazione di amore per la musica. Proprio cominciando dalle reinterpretazioni dei brani più amati, sono nate tante canzoni della band teramana che, più o meno consapevolmente, contengono citazioni, omaggi e tributi ai loro mentori. Questo ci aiuta a definire il Pantheon degli innumerevoli riferimenti della coppia, un mosaico complesso e variegato per decifrare il quale ci viene incontro anche lo spudorato citazionismo della band, che dissemina titoli di canzoni e nomi di artisti del cuore quasi in ogni brano.

Si parte dal Tom Waits di In The Neighbourhood, un tempo in tre quarti nell’originale che diventa una fitta tela di chitarre shoegaze-y che sovrastano anche le voci; si prosegue con le Marine Girls, una delle maggiori influenze della band, la cui Second Sight viene rispettosamente rivoltata come un calzino (questo dovrebbe fare una cover) accelerata, farcita di elettronica, dilatata. Infine Roberta e Andrea calano un tris di assi per chiudere in bellezza. Una versione commovente di Splendid di Vic Chesnutt, il folk sanguigno di Gene Clark che si trasforma in un pop cristallino, tenero e toccante. Chiude l’album il recupero dei conterranei Ban Off, band protopunk/post hardcore “come se fosse antani” , la cui Capricci, punk-folk divertente e ironico, cambia pelle e suona altrettanto gioiosa ma più energica e con una tensione emotiva alla Death Cab For Cutie.

“It Will End In Smile” incorpora in maniera autentica e leggera un incredibile ventaglio di ascendenze e una sterminata cultura pop. Agli occhi di molti potrebbero sembrare musicisti “senza pretese”. Invece inseguono un obiettivo estremamente ambizioso: vogliono “solo” entrare discretamente nella vostra vita, infilarsi nelle pieghe del vostro cuore, ritagliarsi un posticino e restarci.

Quindi di questo parliamo, quando parliamo di AMP. Di purezza dei sentimenti, di mani che si cercano, di nostalgia, di oggetti preziosi e raffinati che racchiudono attenzione, cura, grazia. Di musica a cui dedicare tutto il tempo necessario, sia per suonarla e produrla che per ascoltarla. Parliamo della colonna sonora della quotidianità, della vita lenta di provincia, della gentilezza, di un posto caldo quando fuori si gela, di abbracci, di regali. Di “cose” fuori da ogni logica di mercato, su cui non puoi mettere un prezzo, di un “posto minore” dove si suona per il piacere di farlo, per sincera passione o per un piccolo gesto di vanità, soprattutto per condividere la bellezza. Della capacità di creare senza sforzo apparente delizioso pop screziato di allegria e allo stesso tempo venato di tristezza. Di canzoni colorate e leggere come farfalle, a volte grintose e ruspanti, giorni di sole e giorni di pioggia, minuscoli inni che celebrano la felicità effimera.

La musica degli AMP è rassicurante, ti coccola come quel vecchio vinile della Postcard sul giradischi, le loro note che ti sussurrano che sei a casa, i ritornelli ti fanno sentire al sicuro, protetto. Proprio come le persone che ti vogliono bene. Se non li conoscete già, “It Will End In Smile” è un invito irrinunciabile a entrare nel fantastico, piccolo mondo degli AMP.

Andrea Bentivoglio