Aki Kaurismäki ha parecchi pregi. Uno di questi è la sua capacità di raccontare il presente attraverso immagini, personaggi e luoghi che sembrano appartenere a un’epoca passata. “Foglie al vento”, il suo ultimo bellissimo film, non fa eccezione. I due protagonisti si muovono in appartamenti arredati in stile Anni ’60, usano strumenti analogici, frequentano locali non più alla moda e si vestono come ci si vestiva tre o quattro decenni fa. L’immaginario non è particolarmente cool. Anzi, siamo parecchio lontani dalla perfezione geometrica e modaiola alla Wes Andreson. Qui si ha semplicemente l’impressione di fare breccia in un tempo “altro”, riconoscibile perché già esperito, e per questo universale.

Eppure la storia, dicevamo, è di fatto ambientata ai giorni nostri. Il regista finlandese ce lo ricorda in modo quasi ossessivo puntellando la pellicola di indizi più o meno evidenti: le incessanti cronache radiofoniche dalla guerra in Ucraina, un calendario del 2024 appeso nella cucina di un bar. Ma soprattutto, almeno per quanto ci riguarda, l’apparizione di una band finlandese assolutamente contemporanea.

D’altronde la passione di Kaurismäki per la musica è ben nota. I suoi film sono spesso popolati da veri musicisti che vestono i panni di loro stessi. Dai mitici Leningrad Cowboys, ai quali è dedicata una delle opere più note del regista (“Leningrad Cowboys Go America”, 1989), alla memorabile performance di Joe Strummer in “Ho affittato un killer” (1990), oltre a una miriade di artisti finlandesi meno noti.

Nel caso di “Foglie al vento”, il cineasta ha scelto di dare lustro alle Maustetytöt, una band che in patria gode ormai di una fama straordinaria. Si tratta in realtà di un duo composto dalle sorelle Anna e Kaisa Karjalainen (rispettivamente chitarra e tastiere). Le due musiciste compaiono nella pellicola con una loro esibizione live di Syntynyt suruun ja puettu pettymyksin (traduzione letterale: “Nata nel dolore, vestita di delusione”), uno dei brani più orecchiabili della loro seppur breve discografia.

 

 

Definire il genere delle Maustetytöt è un affare piuttosto complesso. Ci si potrebbe salvare in corner con un generico indie-pop, ma sarebbe comunque incompleto. L’etichetta che viene loro affibiata ufficialmente è “post-rock über indie”. Posto che di post-rock (scusate il gioco di parole) non se ne sente nemmeno un briciolo, resterebbe da capire il vero significato di “über indie”, al di là del facile rimando al noto servizio di trasporto privato o alla Tv Svizzera di Aldo Giovanni e Giacomo.

Il fatto è che la musica di queste biondissime ragazze di Kallio, sobborgo di Helsinki, si porta appresso un retrogusto quasi orientale, nel senso di sovietico, che affascina e destabilizza al tempo stesso. Un synth pop ad alto tasso nordico, con una pizzico di trash (del resto Maustetytöt è la traduzione finlandese di Spice Girls), ma anche qualcosa di accattivante. La lingua di certo non aiuta. E considerato che i loro brani sono “cantatissimi”, cioè pieni di parole, al limite della logorrea, la vera sfida, per le Maustetytöt, è saper smorzare la cacofonia insita del finlandese con qualche picconata di tastiera il più possibile delicata.

Il New York Times le ha definite “incredibilmente cool”. Va a gusti, per carità, e poi chi sono io per smentire il New York Times. Ma detta proprio fuori dai denti, ascoltare un loro disco per intero mi è venuto un po’ difficile. Qualche pezzo interessante c’è. I video che li accompagnano sono altrettanto buoni, questi sì al limite dell’hipsteria. Ne pubblichiamo due o tre qui sotto, poi ci farete sapere.

Paolo