In occasioni del genere ci si sbalordisce sempre. Ma come? Sono già passati vent’anni? Non mi dire, sembra ieri.

Eppure, almeno in questo caso, il tempo passato pesa tantissimo sulle mie spalle di finto giovane. Sarà che inizio a sentirmi davvero grande, per non dire vecchio. Ma porca puttana, io nel 1999 avevo solo 17 anni. Ero un pivello. Avevo la rabbia in circolo, una crisi tardo adolescenziale che non sto nemmeno a rivangare. Un’esplosione di ormoni e sentimenti difficili da domare.

Lo sapete, all’epoca ci si arrangiava diversamente. Niente internet, il cellulare lo avevano in pochi. Roba da privilegiati. Si scriveva comunque tanto, certo, ma non sulle tastiere. Per sfogare i propri malumori c’erano i diari segreti, i bigliettini, i banchi, le pareti della cameretta. Si scriveva molto con lo “sbianchino” (da queste parti lo chiamavamo anche “bianchétto”, con la E aperta), il pennarello bianco per cancellare gli errori ortografici. Sul mio armadio di casa, per dirne una, avevo scritto “Fuck the world”. Così, per rendere chiaro a tutti come la pensavo.

Con lo “sbianchino” (o “bianchétto”, che dir si voglia) si scriveva anche sullo zaino. In tanti copiavano interi testi di canzoni, altri soltanto i nomi dei gruppi. Io ero di questa seconda categoria, nessun cedimento alle smancerie. Ma usavo regole rigidissime. Non tutte le band erano degne di finire sul mio zaino. C’erano i Rancid, i Nofx, i Clash. Un paio di caselle dedicate al metal. Qualche altro nome d’obbligo, tipo Nirvana e Alice in Chains, ma nessun gruppo italiano.

Nessuno fino al 1999. È vero, c’erano i CSI ancora in auge, gli Afterhours, i Marlene Kuntz, e anche il punk nostrano godeva di ottima salute. Ma secondo il mio insidacabile giudizio, lo spazio era troppo ristretto anche per loro. Il 24 settembre di vent’anni fa, però, accadde un fatto straordinario. Tre ragazzetti di Albino, in Val Seriana, diedero alle stampe un disco incredibile per la Black Out Records. Un pugno dritto in faccia.

In quel periodo i professori mi avevano confinato su un banco singolo in fondo alla classe. Pretendevano di contenere così la mia indisciplina. A un metro di distanza, però, sedeva la compagna più dark della scuola. Pochissime parole, capelli lisci fino alle spalle e trucco nero intorno agli occhi, modello Robert Smith. Fu lei, una mattina d’autunno, ad allungarmi quel disco pazzesco. «Tieni – mi disse – Ascoltalo, ma riportamelo presto». Arrivato a casa, mi chiusi subito in camera ad ascoltarlo in cuffia.

Le prime parole sbraitate nella traccia d’apertura (Ovunque) mi eccitarono a tal punto da contorcermi nel letto. “È buio ormai, non mi frega se piangi o no / Io come te, confusione”. Fu uno shock, l’autorizzazione a procedere immediatamente. Allora presi lo “sbianchino” (o “bianchétto”), lo agitai per smuovere la vernice all’interno e scrissi sullo zaino il nome di quella bizzarra band bergamasca: VERDENA.

 

 

In breve tempo il primo album di Luca Ferrari, Alberto Ferrari e Roberta Sammarelli (che all’epoca avevano rispettivemente 18, 21 e 20 anni) si conquistò il ruolo ufficiale di traghettatore instancabile e accorto. Dalle tormentate sponde dell’adolescenza, “Verdena” mi trascinò a colpi di chitarra fino alla spiaggia dei vent’anni. I loro volti, con quelle espressioni così simili alla mia, iniziarono ad ammiccare sui poster appesi al muro. Il video di Valvonauta, poi, entrò in rotazione a effetto immediato. Grazie a quei quattro minuti di musica sparati a sorpresa su Mtv, molti ragazzi riuscirono a salvare le proprie orecchie dalle grinfie di Britney Spears, Christina Aguilera e i Lunapop.

Spiegare il perché di tutta questa sintonia è un affare complesso. Ci sono innanzitutto dei meriti “tecnici” e stilistici. Il disco fu prodotto da Giorgio Canali nello studio Sonica a Calenzano (Firenze). Fu registrato interamente dal vivo, eccetto le voci. Senza cuffie e senza metronomo. Il risultato fu un suono grezzo e genuino. Spigoloso, oscuro, ma tremendamente vivo. Con un colpo di teatro aveva riacceso le speranze di risentire qualcosa che si avvicinasse al grunge, ai Nirvana più sporchi (Zoe è forse il brano più “nirvaniano” mai scritto dai nostri), ma anche alle peripezie dei Motorpsycho. La voce di Alberto Ferrari, ancora giovane e immatura, sfiorava corde simili a quelle di Kurt Cobain.

Simili, però, non significa identiche. La sua non era una semplice imitazione, ma la testimonianza di una presenza/assenza ancora molto forte nell’immaginario giovanile di fine millennio. Qualcosa che andava ancora metabolizzato e per questo affrontato e capito. Di lì a qualche anno, infatti, con i dischi successivi e la maturità artistica ormai raggiunta, la voce di Alberto sarebbe diventata iconica e riconoscibilissima. Un marchio di fabbrica. Megafono di una gioventù disperata e fiera.

 

 

E che dire dei testi? Tragici, spiazzanti, totalmente slegati dalla tradizione cantautorale italiana. Per chi era abituato ad ascoltare messaggi più o meno diretti, espliciti, tutt’al più banali, le parole scritte dai Verdena, al contrario, apparivano quasi incomprensibili. I versi si adagiavano sulle note, funzionali alla musica stessa, adattandosi all’atmosfera dei brani. Rime semplici, semplicissime, che pescavano da un vocabolario molto ridotto e basato sulle alternanze lei/sei – mai/sai – te/me.

Eppure, tra le pieghe di quei testi così semplici, almeno in apparenza, si nascondevano significati diversi, lasciati sì alla libera interpretazione dell’ascoltatore, ma inesorabilmente diretti al profondo dell’anima. «I miei testi possono essere interpretati in modo diverso – disse una volta Alberto – in base alla persona o al momento». Merito forse della scelta di alcune parole ricorrenti (“confusione”, “lontano”) e a quell’ossessione di voler andare sempre a fondo, all’interno, e “infilarsi” in qualsiasi cosa (“urlare nei rumori tuoi, per me”, “se in vena scorre, lei piano corre da me”), ma soprattutto “dentro” alla persona amata (“ora bevo in lei e mi sento più speciale”, “ora dormi in me”, “perdo spesso un po’ di me, in te”, “affogami dentro te”).

Nei testi dei Verdena soggetto e complemento diventano intercambiabili. Non è mai chiaro a chi si rivolgano realmente. È un continuo gioco di rimandi, ma senza libretto delle istruzioni. Come barcollare in una stanza degli specchi in preda alle allucinazioni dell’autore. Il “tu” diventa improvvisamente “lei”, ma “lei” è anche “me”, “noi”, gli altri. Anche i possessivi si sprecano, ma ciò che è “mio” è spesso inteso come “tuo”, “suo” o “loro”. E poi c’è il blu, il colore che ancora oggi tinge la poetica della band di una calma momentanea, sfuggente, sempre attesa (“nei miei neri e blu non mi sembra di trovarti mai”, “tu, seno blu, mi vuoi per te”, “vedo blu e ti senti fragile”).

 

 

Forse, però, quello che ha reso l’esordio dei Verdena il più potente della nostra generazione è la sua purezza. Nessuna ambizione, nessun compromesso, solo la voglia di suonare e urlare il proprio disagio. Impossibile aspettarsi altro da tre ragazzi schivi, poco inclini a mostrarsi in pubblico, talmente timidi da rilasciare rare e impacciate interviste.

La loro comfort zone è l’ormai mitologico Henhouse, il pollaio di casa trasformato in uno studio di registrazione. Alberto, Luca e Roberta amano rinchiudersi qui, da sempre, circondati da boschi e bestiame. È il rifugio di tre ragazzi di provincia poco addomesticabili, che hanno fatto della musica la loro vita.

L’urgenza degli esordi è rimasta intatta in tutti i dischi a venire. Lavori che di volta in volta li hanno visti crescere ed evolversi tantissimo, senza mai perdere la loro indole meravigliosamente selvatica.

I Verdena hanno imboccato strade nuove seguendo un percorso che, come per magia, continua a correre in parallelo a quello dei loro fan. Perché ascoltando ogni nuovo album del gruppo hai sempre la sensazione che Alberto, Luca e Roberta non ti abbiano mai abbandonato, nemmeno nei periodi di silenzio discografico. I Verdena diventano grandi insieme a te. Affogano “in te” e riemergono in superficie con in bocca una canzone che è sempre capace di parlarti lì, in quell’esatto istante della tua vita.

Il 24 settembre 2019 il primo disco dei Verdena compie 20 anni. Non sono certo pochi, lo abbiamo detto, e da allora sono cambiate parecchie cose. Le chitarre non vanno più di moda, l’indie non è più indie, almeno per come lo si intendeva, e l’avvento della trap (nessuno sa perché) ha rivoluzionato quel poco di mercato che è rimasto.

Poi ci siamo noi, che dalla scuola siamo passati all’università o al lavoro. Decine di traslochi, storie stracciate e centinaia di dischi divorati hanno puntellato questo ventennio di gioie e dolori.

Chissà che fine ha fatto la compagna che mi passò quell’album. Vorrei dirle soltanto grazie, amica mia, grazie infinite. Ah, sai una cosa? Nel mio vecchio armadio c’è ancora lo zaino con la scritta fatta con lo “sbianchino”. Quello che doveva servire a cancellare gli errori, ma che in quegli anni usavamo per marchiare a fuoco (anzi, a vernice) il nome della nostra band preferita. VERDENA.

Paolo

 

 

La copertina di Verdena – 20th Anniversary Edition

Per l’occasione i Verdena hanno pubblicato una nuova edizione del loro disco d’esordio, disponibile in doppio cd o triplo vinile. Contiene l’album originale, la cui prima traccia (Ovunque) presenta un mix alternativo alla prima versione ormai dispersa, oltre a cinque relitti, due residui, due avanzi e un demo. Due di questi brani erano già contenuti nell’EP “Valvonauta” (Bonne Nouvelle e Piuma), altri due pezzi sono Corpi (inedita) e Fiato Adolescenziale. A completare la tracklist, una versione acustica di Fuxia e due versioni di Ormogenia, la prima recuperata da vinile e la seconda registrata su quattro piste a cassetta nel corso di una delle tante jam casalinghe. In chiusura un passaggio abbozzato in acustico (Oggi) e una versione live di Shika (altro inedito).