Strana storia, quella degli Smashing Pumpkins. Band di successo planetario nei magnifici nineties grazie alla pubblicazione di due capolavori in meno di un decennio (“Siamese Dream” e il mastodontico concept “Mellon Collie and the Infinite Sadness”) e poi l’implosione dovuta probabilmente all’ego spropositato del leader Billy Corgan durante la fine del millennio. Quello, per la verità, era un periodo ancora fertile per il gruppo, che pubblicò il secondo concept della carriera (“Machina I & II”), non all’altezza dell’irraggiungibile fratello maggiore ma comunque, ascoltato soprattutto a distanza di un ventennio, da promuovere a pieni voti.

Poi il bisogno di indipendenza di Corgan, sfociato nel progetto Zwan e nell’inizio di una brevissima carriera solista. Visti quindi gli scarsi successi commerciali, ecco la riappropriazione del monicker storico con una band completamente stravolta e la pubblicazione di tre lavori che sono copie sbiadite dei bei tempi che furono. Infine il ritorno in salsa magna della formazione originale (esclusa la bassista D’Arcy Wretzky), che aveva fatto ben sperare i fan di tutto il mondo grazie a un maestoso tour, a un album non ottimo ma comunque buono (“Shiny and Oh So Bright, Vol. 1 / LP: No Past. No Future. No Sun.”) e infine a una scintilla acustica (quella sì di pura classe) quale l’inaspettato secondo lavoro solista di Billy Corgan, “Ogilala”.

Tutto sembrava dunque pronto per il ritorno alla gloria, se non che “Cyr”, il doppio album uscito due anni fa, arrivò prontamente a disilludere chi ancora credeva nelle Zucche. Quel lavoro, tra l’altro, con il senno di poi, era almeno dotato di una coraggiosa scelta di omogeineità e persino di un buon singolo: The Colour of Love.

Ma il presente? Il presente è l’ennesimo progetto di dimensioni elefantiache (un concept di tre album per 33 canzoni) che invece di rendere grati i fan sembra volerli spaventare. Un album diviso in tre parti che saranno tutte rese disponibili entro il prossimo aprile. Per ora possiamo ascoltare solo il primo atto, nel quale i Nostri giocano a fare i Pink Floyd risultando più simili agli Yes e ai Genesis del periodo pacchiano anni Ottanta (l’introduzione strumentale ATUM), a riscoprire il dark scimmiottando i White Lies, a giocare con le tastiere come facevano gli Europe e con l’elettronica con risultati manco lontanamente avvicinabili a quelli più che buoni di un tempo.

È un peccato, perché dal punto di vista melodico Billy Corgan è ancora presente, seppure sepolto da arrangiamenti da cartoni animati giapponesi anni Ottanta. L’unica speranza rimasta è che il protagonista del concept si trasformi da videogioco arcade (sentitevi l’inascoltabile Hooray! a proposito) in essere umano dotato di emozioni, sangue e persino escrementi. Basterebbe che la band di Chicago tornasse ad affrontare la propria carriera con onestà, un poco più immersa nella cruda realtà.

Andrea Manenti