New York è l’attuale capitale mondiale, non solo economica ma anche artistica, sportiva e scientifica. Poco importa se l’egemonia statunitense rischia di essere surclassata da quella cinese in “breve” tempo. Per ora la grande mela rimane il faro a cui tutto il mondo guarda, l’esempio da seguire, l’avanguardia del mondo. Proprio per questo motivo non esiste un unico suono che definisca la città, ce ne sono diversi. C’è l’Hip-Hop east coast di Wu Tang Clan e Dj Premier. Il Punk ’77 del CBGB. Il Jazz del Greenwich Village. E così via, fino ad arrivare alla scena rock/noise/alternativa/underground. Il movimento nato con Andy Wharol e i Velvet Underground, proseguito grazie ai Sonic Youth, ripreso dai Pavement e Fugazi e finalmente sdoganato dagli Strokes. Ultimamente definito tramite un unico termine: indie-rock.

I Parquet Courts sono i maggiori esponenti dell’indie-rock newyorkese/statunitense (e quindi mondiale) oggi e i naturali eredi della tradizione di cui sopra. Quartetto classico batteria, basso, due chitarre e una voce guidato dal leader carismatico Andrew Savage formatosi nel 2010. Esordirono nel 2011 con American Specialities, Sunbathing Animals, del 2014, li portò all’attenzione del grande pubblico e ora, dopo aver pubblicato sempre nel 2014 uno strano esperimento sotto le mentite spoglie dei Parkay Quarts, cercano la consacrazione definitiva con questo Human Performance. Prodotto niente po’ po’ di meno che dalla mitica etichetto Rough Trade. Scusate se è poco.

Immaginatevi 4 ragazzini bianchi della piccola borghesia metropolitana, totalmente dediti alla filosofia DIY, animati da una rabbia punk, pervasi dal rumore (noise) della città e sfibrati dalla frenesia della stessa. Immaginatevi ora che bordate potrebbero essere le loro canzoni senza un ottimo lavoro di lima in studio come è stato fatto per questo Human Performance. Infatti, nonostante i 14 pezzi di questo lavoro mantengano la stessa spigolosità ed asprezza degli inizi, ed il buon Savage nella maggior parte delle tracce continui ad urlare slogan al microfono come un novello Joe Strummer, durante i 42 minuti di durata si intravedono notevoli aperture, non tanto alla melodia, quanto alla musicalità. Ed è proprio questa levigatura delle asperità del sound della band che rende questo disco un ottimo disco.

Il full-lenght si apre con ‘Dust’, vaghe aperture country, chitarre iper-distorte, pochi slogan ma chiari sputati in faccia all’ascoltatore e una coda strumentale che si conclude con il suono dei clacson nel traffico della fifth avenue. Come a voler mettere in chiaro tutto fin dall’inizio. Superato lo schiaffo iniziale il resto è in discesa, tra pezzi più rock-n-roll della durata di nemmeno 2 minuti come ‘Outside’ e ‘I Was Just Here’, aperture western come ‘Berlin Got Blurry’, chiare derivazioni dei Clash ‘Pathos Praire’ e addirittura una ballata ‘It’s Gonna Happen’. Solo ‘One Man, No City’ spezza questa apparente tranquillità. Traccia di oltre sei minuti posta esattamente a metà del disco, fa il paio con ‘Dust’ e ci ricorda la potenzialità detonativa del quartetto.

Potenzialità che, per non produrre troppi danni alla collettività, è stata trattenuta e centellinata. Mischiata ad altri elementi e annacquata. Regalandoci così un bellissimo disco. Rabbioso e intenso, ma variegato ed eclettico nelle sue espressioni.

Se non è una pietra miliare poco ci manca.

Lesterio Scoppi

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