“Questo è il vero indie, la vecchia scuola”. Un ragazzo si rivolge a un’amica mentre si affretta sulla salitella che porta al palco Idealista. Cammino a un metro e mezzo da loro, rido sotto i baffi appena spuntati e rispondo anch’io al richiamo dei The Pains of Being Pure at Heart. Quella frase è una matita che riavvolge il nastro del Mi Ami Festival. Sono lontanissimi i tempi dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, dove tutto ebbe inizio nel 2005. All’epoca l’acronimo Mi Ami stava per “Musica Indipendente a Milano”, era scritto sui manifesti. Accanto agli artisti in cartellone c’era il nome dell’etichetta per cui uscivano. L’anno successivo il festival si spostò al Circolo Magnolia. E lì, edizione dopo edizione, il Mi Ami è diventato grande. L’acronimo è rimasto lo stesso, ma adesso Mi Ami sta per “Musica Importante a Milano”. Si è trasformato in un appuntamento irrinunciabile non soltanto per chi sta appresso alle produzioni artigianali, ma anche per chi in quel mondo è cresciuto per poi prendere il largo. Musica che nel frattempo si è trasformata, per certi versi snaturata, bisogna dirlo. Molti artisti sono scomparsi dalle scene, risucchiati nel dimenticatoio. Molti altri, invece, sono sopravvissuti calandosi nel ruolo tutt’altro che svilente di “nonni indie”. La vecchia scuola, appunto, che ha fatto di nuovo capolino in questa bellissima, diciannovesima edizione.

Questione di spirito

Già, perché quest’anno il Mi Ami ha fatto un altro balzo in avanti. Da “grande” è diventato “grandissimo”, maturando un potenziale addirittura superiore. Bastano pochi passi nel nuovo spazio all’interno del parco dell’Idroscalo, per sentirsi parte di un evento ben organizzato. Quasi non ci si crede: non sembra neanche di essere in Italia. Dalle nostre parti, festival così concepiti, di queste dimensioni e con queste ambizioni, sinceramente non ne avevo mai visti. Perché non basta portare i grandi nomi stranieri per guadagnarsi la caratura e lo spessore di un festival internazionale. Quello che serve è la mentalità e la capacità organizzativa. I ragazzi del Mi Ami, quest’anno, hanno dimostrato di averle. E se è vero che oggi siamo di fronte a un festival “altro” rispetto alle primissime edizioni, è altrettanto assodato che lo spirito è rimasto sostanzialmente lo stesso.

Prova ne sia la lineup scelta per questa seconda giornata, l’unica a cui ho potuto partecipare, ma sufficiente a saziare la mia voglia di “musica bella” e di “baci”. La sola presenza dei The Pains of Being Pure at Heart, qui, davanti ai miei occhi, basterebbe a dare un senso a quanto detto finora. La band di New York, tornata quest’anno con una compilation dopo lo scioglimento del 2019, rappresenta il perfetto trait d’union tra vecchio e nuovo (qui il report della loro ultima apparizione proprio al Circolo Magnolia nel 2018). Kip Berman, che nel frattempo ha pubblicato due dischi uno più bello dell’altro con il moniker The Natvral (recuperateli, nel caso), sfoggia un sorriso tenero e compiaciuto mentre tra una Gentle Sons e una Ramona d’annata legge ad alta voce i nomi delle band che vede impressi sulle magliette del suo pubblico: Sonic Youth, Beach Fossils, Martha e altre che al momento non ricordo, ma degne di nota.

Indie, folk e funky pop

Poco prima, su questo stesso palco, avevano suonato i Baseball Gregg, la migliore apertura possibile per questa piccola e preziosa parentesi di indie-pop d’altri tempi con un approccio alla materia tipicamente DIY. Poi era stata la volta dei Vanarin, un’altra eccellenza italiana (bergamasca, per la precisione), che andrebbe maggiormente spinta sia dentro che fuori i confini nazionali. Al termine di questo trittico di tutto rispetto, mollo il palco Idealista e seguo istintivamente un tizio con la maglietta di Attilio Lombardo all’epoca del Crystal Palace (43 presenze e 8 gol tra il 1997 e il 1998). Mi stacco subito, in realtà, distratto dal panorama sul lago: un altro plus di questa edizione. Insomma, oltre all’orecchio, anche l’occhio vuole la sua parte, come si dice. Se poi ci aggiungi un bel sole, la ruota panoramica e il pratino che costeggia il viale, anche la scelta estetica di quest’anno è promossa a pieni voti.

Sul palco Champion suona Alice Phoebe Lou, sola soletta con la sua chitarra. È impegnata a incantare un tappeto di gente con il suo indie-folk fragile e una cover di Harvest Moon di Neil Young ancora più asciutta dell’originale. Un palco più piccolo, forse, l’avrebbe valorizzata maggiormente. Tutto un altro mood per i Fitness Forever, soft porn / funky pop per i nostalgici degli anni ’80. Alle loro spalle scorrono le immagini di Aldo Biscardi e il Processo del lunedì, College, Beautiful, le televendite di Aiazzone. A un certo punto spunta a sorpresa pure Calcutta, già presente sul loro ultimo disco con A Vele Spiegate.

Grandi ritorni

Il passaggio da un palco all’altro è rapido e indolore (ennesimo punto a favore). Il tempo di una birra (comodo il sistema di pagamento tramite app e braccialetto!) e mi presento bello fresco sotto il palco dei Belize. Mi dicono che nel frattempo, sul palco Lago, si sta consumando uno dei live più divertenti, riusciti e partecipati del festival con Il Mago del Gelato. Ma occorre fare delle scelte, anche se dolorose. Più avanti, per esempio, rinuncerò a malincuore ai Casino Royale, ma tant’è. Qui opto per il ritorno della band varesina e poi per i già citati Pains of Being Pure at Heart. Dopotutto i grandi ritorni vanno onorati.

E a proposito di grandi ritorni e slogan azzeccati (“sono stato indie prima di voi”), questa è anche la serata degli Offlaga Disco Pax e dei vent’anni di “Socialismo Tascabile”. Vuoi non esserci? Max Collini apre il quaderno dei ricordi e narra le sue storie intrise di nostalgia, militanza e goliardico disfattismo, chiudendo con l’attesissima Roberspierre in versione lievemente meno ballabile. Poi si rimane lì, perché un quarto d’ora dopo è la volta de Il Teatro degli Orrori. La band di Pierpaolo Capovilla si presenta con puntualità chirurgica e ci spara in faccia un concerto intensissimo che vince a mani basse il premio del pogo. Per chi era all’Alcatraz qualche mese fa, l’impatto è stato identico se non migliore. Peccato per la scaletta ridotta: del Teatro non si è mai sazi.

Nuove sensazioni, tutte positive

Soltanto ora scopro che oltre ai camioncini disposti sulla passerella, c’è una vera e propria area food. Meraviglia. A questo punto avrei potuto spiluccare qualcosa, tirare i remi in barca e salutare tutti. Non prima, però, di assistere all’ultimo live di “musica importante”. Quello degli Studio Murena, una delle migliori realtà degli ultimi anni sul panorama italiano. Mai visti così in forma e padroni del palco quanto stasera (qui la recensione dell’ultimissimo “Notturno”).

Ebbene, questo è quello che ho visto. Di più non ho potuto. Questo è stato il mio festival e ne sono contento. Solo un giorno su due (su quattro, in realtà), ma tanto è bastato per tornare a casa soddisfatto. Nuove sensazioni, tutte positive. Tanto per capirci, userò un periodo ipotetico: se un turista straniero mi chiedesse che cosa fare in giornate come queste a Milano, lo manderei senza dubbio al Mi Ami. Ce lo manderei con discreto orgoglio.

Paolo