Riecco La Furnasetta (qui la nostra intervista e qui la recensione del penultimo album), questa volta in split con Leather Parisi, altro nome noto della recente scena industrial italiana. Dall’amatorialità degli esordi, pare che da queste parti stia sbocciando una certa professionalità. Il suono si è fatto, sicuramente per La Furnasetta, più decoroso e organizzato. Rispetto al solito clangore rugginoso e steam punk, qui siamo infatti alle prese con un rumore cesellato, lucente e pungente come una pioggia di chiodi disegnati da un architetto anaffettivo e appena sfornati in tutta la loro brillantezza da un impianto automatizzato di produzione. Dal metal da strapazzo a cui ci avevano abituato, si passa così ad echi ora neoclassici, ora walzerecci, ora bucolici. Sempre all’insegna di un sound collaudato come un film di genere, feroce e distorto.
I Leather Parisi li conosciamo meno, non sappiamo descriverne la traiettoria alla luce di questa uscita, ma quello che abbiamo ascoltato di certo si fa apprezzare per il sofisticato arrangiamento delle tracce, nonostante i suoni aspri, il gusto per la ricerca di ritmi tra il danzante e lo sghembo, e un chiaro omaggio al rock in quanto musica sensuale, ben udibile sotto le colate di rumore collocate lungo il tragitto d’ascolto per camuffarlo. Il sound è degno dei Depeche Mode più turgidi, i riff sono a volte quasi boogie. Menzione d’onore per la finale Pachina Legacy, una specie di jam session free jazz tra robot, che abbandona la ricerca dell’ordine brutale delle altre canzoni proposte a favore del caos e di una ricerca incessante di un equilibrio francamente impossibile.
Se dovessi suggerire uno sviluppo a questi due progetti, sarebbe quello di buttare nel solaio il sound spaccatimpani e da motore a scoppio che ancora omaggiano, per assecondare le evidenti aperture sinfoniche e cameristiche che col mestiere stanno inoculando nelle loro strutture sonore. Dato che immagino che la loro produzione sia al 100% digitale, cosa costa provare a usare piano e violino invece che synth e chitarroni?
Alessandro Scotti
Mi racconto in una frase: vengo dal Piemonte del Sud
Il primo disco che ho comprato: “New Picnic Time” dei Pere Ubu è il primo disco che ho comprato e che mi ha segnato. Non è il primo in assoluto ma facciamo finta di sì.
Il primo disco che avrei voluto comprare: qualcosa dei Pink Floyd, non ricordo cosa però.
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso: la foto della famiglia di mia madre è in un museo, mia madre è quella in fasce.