Sospesi tra un sound anni ottanta e una sensibilità in grado di afferrare alla perfezione la contemporaneità, decostruendola in un collage di istantanee rubate al quotidiano, i Nation Of Language (Ian Richard Devaney, Aidan Noell e Alex MacKay) sono tra le band che negli ultimi anni hanno più saputo attirare l’attenzione a livello internazionale come nuove leve del synth-pop. Come tanti altri emergenti nell’ultimo periodo, però, si sono trovati ad affrontare la crisi dell’industria musicale dovuta alla pandemia. Per la band di Brooklyn, infatti, l’esordio del 2020 è stato congelato, vissuto lontano dal palco, in attesa di poter mostrare ogni sua sfumatura nella dimensione live.

Amiamo essere in tour, e siamo riusciti a fare molti show da quando è terminato il lockdown, è stato incredibile. Non abbiamo saltato quasi nessuna data”, dice Ian Richard Devaney, frontman dei Nation of Language, mentre sorride parlando dei futuri show che il gruppo dovrà affrontare in giro per il mondo – come se riuscisse già senza sforzo a sentirli sulla pelle – dopo tanta attesa.

L’influsso della dimensione live sulla nostra musica è qualcosa su cui ho riflettuto molto quando stavamo registrando i nostri nuovi lavori. Nella mia testa, il nostro primo album si può godere al meglio ascoltandolo mentre si guida in macchina; il secondo si può sperimentare bene in treno, perché le canzoni hanno spesso un senso intrinseco di movimento continuo, mentre per questo nuovo disco ho pensato spesso alla sensazione dell’andare in tour in nuovi luoghi. La maggior parte delle volte non hai tempo di rilassarti o vedere quello che c’è intorno a te se non per qualche ora tra il soundcheck e lo show, quindi nella mia testa mentre registravamo stavo pensando a quell’emozione, a quella sensazione che si prova camminando per una città. In ogni caso, abbiamo cercato di sperimentare quanto più possibile”.

 

 

Dopo le atmosfere dense e avvolgenti di “Introduction, Presence”, l’esordio della band, la direzione sembrava quella di un post-punk dalle sfumature nostalgiche, dove tappeti di sintetizzatori regnavano sovrani in riff ossessivi. “I’m gazing upon/Stained glass and ceilings of pure white/The choir calls/From the back/And it’s nice”, cantava Daveney in September Again, uno dei brani più interessanti di quell’album, dove piccoli frammenti di realtà venivano portati al di fuori del loro contesto, in canzoni in cui diventava centrale la contemplazione dei dettagli per ritrovarsi nel profondo della vita.

“A Way Forward”, del 2021, ha rotto quella calma ultraterrena che sembrava muoversi tra le note dei pezzi precedenti: ritmi nevrotici e frasi spezzate, lo spazio crolla davanti al peso dell’esistenza, il tentativo di riassorbire quello che è rimasto è impossibile nella contemporaneità che dobbiamo fronteggiare.

Uno sguardo che si muove frenetico tra esterno e interno, unendo i due mondi, le due anime, sembra caratterizzare anche i nuovi brani di “Strange Disciple”, come Sole Obsession e Stumbling Still, partendo dalla sensibilità di Ian Deveney per catturare poi l’universale: “Penso che ci siano molti influssi esterni nelle mie canzoni; non tutto si basa su quello che ho sperimentato. Alcuni testi raccontano ad esempio quello che avrebbe potuto essere ed invece non è stato, oppure ci sono elementi che vengono ispirati da amici, membri della famiglia e non solo, cercando di interpretarli attraverso i miei occhi e cercando di mettermi al loro posto. Penso di essere in questo molto egoista, cercando di vedere tutto attraverso il mio sguardo. A volte cerco di comprendere le persone che mi circondano e il loro modo di agire, le loro scelte, ma devo ammettere che non sarei in grado di creare così tanto se mi concentrassi solo sulla mia esperienza o su quella degli altri; è combinando questi elementi che diventa più facile per me rimanere creativo”.

 

 

Difficili da associare ad altri nomi della scena anglofona contemporanea, i Nation of Language pur nel loro essere derivativi (rispetto al passato dell’elettronica) hanno trovato una cifra stilistica d’impatto grazie alla limpidezza del sound dei loro sintetizzatori. La possibilità di collaborare con altri artisti però non è da escludere.

Una persona con cui amerei lavorare è Weyes Blood, che ritengo essere una delle musiciste più interessanti sulla scena. Ho avuto l’occasione di vedere una sua performance a New York non troppo tempo fa: mi ha portato a concepire il disco in un modo differente, oltre che ad avere anche un nuovo sguardo sulla musica, e questo è stato molto bello e interessante. Lei ha un carattere forte ed è diversa da tante altre cose che si possono ascoltare oggi”, conclude Devaney mentre parla della sua voglia di sperimentare e del suo diverso approccio al lavoro di gruppo che sta iniziando a scoprire soprattutto nell’ultimo periodo, dopo essere stato sempre un “solitario” durante la fase creativa.

Ho avuto la possibilità di portare avanti una collaborazione con Fabrizio Moretti dei The Strokes, una grande ispirazione per me. Lavorare a stretto contatto con lui sul disco per il progetto Machine Gun. È stato molto importate vedere come anche altri artisti si pongono verso i progetti. Questo mi ha consentito di acquisire più esperienza e di sviluppare un processo creativo distante dal mio – che di solito mi portava a lavorare da solo – riuscendo quindi a trovare un’intesa con più persone e coinvolgendo anche altri all’interno del momento della creazione”.

La band avrebbe dovuto suonare al festival “La Prima Estate” di Lido di Camaiore (Lucca) il 18 giugno scorso come unica data italiana, ma a causa di un problema di salute il concerto è stato annullato. Ecco l’annuncio ufficiale della band: “Siamo dispiaciuti di dover cancellare la nostra performance e di posticipare la nostra visita in Italia per suonare davanti a tutti voi. Ian è malato e non è in grado di cantare al momento”. Speriamo quindi di poterli sentire dal vivo al più presto.

A cura di Lucrezia Lauteri