“To the Burn and Turn of Time” è un disco del 2019, l’ho messo nella mia top ten di fine anno. Poi però mi sono reso conto che senza una recensione la cosa non aveva molto senso, o quantomeno non aiutava ad approfondire l’opera prima “sulla lunga distanza” (come scrivono i giornalisti veri) degli Holy Swing.
Vorrei partire innanzitutto dall’artwork ad opera di Elena Tosi. Le immagini pastello, come il viso della ragazza in copertina, che si sovrappongono ad altre in bianco e nero, unite alla scelta di una grana particolare e di un font elegante per i testi delle canzoni, compongono la grafica del disco che diventa, da un lato, tutt’uno con la musica, ma rappresenta anche, a mio giudizio, un’opera a sé stante, perfettamente complementare ma indipendente.
Ci tengo a sottolineare questo aspetto perché, dopo aver ascoltato il primo singolo, e aver dato retta al parere positivo di un amico di cui mi fido molto, ho deciso di andare a sentirli dal vivo all’Edonè di Bergamo, qualche settimana fa. Come da mia abitudine mi sono diretto verso il banchetto del merchandising e immediatamente mi sono innamorato del packaging e del poster che riprendeva l’artwork, prima ancora che la band iniziasse a suonare, prima ancora di aver sentito il disco per intero. L’ho comprato, ovviamente, e da quella sera è nella mia macchina, assieme ad un paio di altri (credo siano Evan Dando e Pueblo People, per la cronaca).
Come la maggior parte dei dischi che ascolto e che mi emozionano, in genere racchiusi nel grande insieme del rock alternativo, anche “To the Burn and Turn of Time” si astiene dall’offrire un qualche tipo di avanguardia e/o sperimentazione, ma offre “semplicemente” (come se fosse facile!) delle belle canzoni, ben scritte, che centrano l’obiettivo di richiamare un immaginario ben preciso, in questo caso il mondo emo/post-hc statunitense, vedi Brand New o Manchester Orchestra, giusto per fare due nomi.
La produzione artistica, a cura di Giacomo Corpino di Whale Audio, indirizza la band su un percorso solido e focalizzato, giustamente “chitarroso”, e valorizza la traiettoria del disco nel suo alternarsi tra momenti introspettivi e morbidi (con un certo penchant per i Neutral Milk Hotel) e sfuriate punk al limite dello screamo.
I testi, in inglese, sono interessanti e dalla cartella stampa si evincono aspetti che non sarei stato in grado di cogliere dal semplice ascolto. Si passa da episodi più intensamente esistenzialisti, Donnie, Flower Bed, Twin Primes, ad affascinanti derive filosofiche, April Wheel e le gemelle Parfit’s Glass/Your Dopamine, fino a toccare tematiche di stretta attualità come la crisi climatica, in The New Abnormal.
Non voglio però scrivere troppo, vi toglierei del tempo prezioso che dovreste invece impiegare nell’ascolto di questo disco, perché merita veramente. Approfitto infine di questo spazio per ringraziare la band che mi ha fatto scoprire la figura del professor Derek Parfit, che purtroppo nella mia pigra laurea in Filosofia non avevo mai incrociato, e chiudo dunque con una sua citazione: “Some of our successors might live lives and create worlds that, though failing to justify past suffering, would give us all, including some of those who have suffered, reasons to be glad that the Universe exists”.
Carlo Pinchetti
Mi racconto in una frase:
Campione d’istituto di ping pong in prima media, distrattamente laureato in Filosofia, papà, scrivo canzoni con la chitarra e le canto.
I miei tre locali preferiti per vedere musica:
Ink Club (Bergamo), Biko (Milano), Bloom (Mezzago)
Il primo disco che ho comprato:
Nirvana “Bleach”
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Nirvana “Bleach”
Una cosa di me che penso sia inutile ma ve lo racconto lo stesso:
A 14 anni sono stato selezionato per l’All Star Game del camp estivo di basket dell’Università di Syracuse, ma non ho potuto giocarlo perché avevo l’aereo di ritorno.