Chi non dovesse conoscere i Glasvegas non si lasci trarre in inganno dalla copertina di quest’ultimo album. Elvis e i Clash c’entrano poco. Non vi è infatti traccia in questo “Godspeed” né del rock’n’roll primigenio del Re, né del suo richiamo rielaborato nel capolavoro di Joe Strummer e soci. Più facile che James Allan e compagni abbiano semplicemente voluto a modo loro omaggiare le due leggende.

“Godspeed”, quarto album della band di Glasgow appena uscito a distanza di ben otto anni dal precedente “Later… When the TV Turns to Static”, è la perfetta continuazione di quella che era stata fino ad allora la carriera dei Glasvegas. Abbiamo dunque forti influenze post-punk in brani come Dive, Dying to Live, Cupid’s Dark Disco e In My Mirror e ballatone emozionanti (difficilissimo se non impossibile per chiunque abbia un cuore non tremare almeno un po’ quando la voce di Allan è al massimo della sua energia) come Keep Me a Space e My Body Is a Glasshouse (A Thousand Stones Ago), due brani che forse non avranno la scintilla delle ormai classiche Geraldine e Daddy’s Gone dall’esordio del 2008, ma che comunque fanno ancora la loro sporca figura.

Non mancano poi divagazioni preziose: l’atmosferico spoken word di Shake the Cage (für Theo), non a caso scelto come colonna sonora nel biopic su Alan McGee “Creation Stories”, di recente uscita anche qui in Italia, il valzer per chitarra acustica Stay Lit e la conclusiva title track, un vero e proprio colpo al cuore. “Godspeed” è un buon album di un’ottima band che mancava da tanto, troppo tempo. Già solo per questo dovremmo gioirne.

Andrea Manenti