Milano, 22 giugno 2022
Rientri a casa, ti fai una doccia e vai al concerto. Prima, però, devi risolvere un grosso problema. Al concerto dei Bad Religion ci vai con la maglietta dei Bad Religion o ne metti un’altra a caso? È un bel dilemma, non sottovalutatelo. Nel senso: indossare la maglietta del gruppo che stai andando ad ascoltare è una cosa che non si fa oppure chissene frega?
Beh, io sono sempre stato contrario, ma ammetto che questa volta ero lì lì per metterla. Già, perché il logo dei Bad Religion è un simbolo di appartenenza. Non è (solo) una questione religiosa, lo stesso gruppo ha spiegato più volte che non si tratta di mero ateismo. Certo è, però, che il crossbuster (questo il nome dato al logo disegnato dall’ex chitarrista Brett Gurewitz) è un’icona da mostrare con orgoglio. Soprattutto quando stai uscendo di casa e sul pianerottolo incroci la vicina che sta andando a messa. «Salve signora, buona serata». Nessuna risposta.
Tiro in ballo l’argomento perché le centinaia di fan che hanno riempito l’Alcatraz per il live milanese della storica band californiana devono averla pensata allo stesso modo. Non esagero: una buona metà del pubblico indossava la maglietta del gruppo. Mai viste così tante croci in un unico spazio. D’altronde era un concerto che definire atteso era quasi riduttivo. Parliamo infatti di un tour glorioso a prescindere. Una festa punk per celebrare i 40 anni di carriera dei Bad Religion. Anzi, per l’esattezza sono 42, perché nel frattempo sono passati due anni di pandemia senza che il tour potesse iniziare. Capite bene che non presentarsi a eventi del genere è roba da maleducati. E allora, già che ci sei, ti presenti con il dress code adeguato.
Ok. Oltre al colpo d’occhio sulla distesa di crossbusters, prima di parlare di musica mi preme restituirvi qualche altra istantanea che mi sono portato a casa dal live. Dunque, vado a briglia sciolta, tipo elenco della spesa.
Ho visto:
1. Un gruppetto di creste, obiettivamente ben modellate, assiepato accanto alla scala che porta al bar. La compattezza tra creste ai concerti punk mi ha sempre affascinato. È una questione di unità, rigore e salvaguardia. Un ottimo comitato d’accoglienza per ricordare ai fan dei Sum 41 che qui non sono i benvenuti.
2. Una schiera di uomini più o meno vecchi, un tempo ribelli sia dentro che fuori (oggi solo dentro), appostati sotto il palco con i figli minorenni al seguito. Prima dell’inizio del concerto, li ho sentiti imbastire discorsi motivazionali del tipo “vedrai figliolo, ti divertirai”. Cinque minuti dopo, la prole volava impazzita sopra le nostre teste brizzolate, in un crowd surfing selvaggio con tanto di ditino puntato al cielo. Battesimi del genere si ricordano per tutta la vita.
3. Un tizio che dopo il concerto si leva la canottiera e inizia a strizzarla in mezzo all’Alcatraz come se fosse in un lavatoio pubblico nel dopoguerra. Giuro che sul pavimento si è creato un enorme lago salato, una roba orribile, con un buon metro e mezzo di distanza tra una sponda e l’altra, dove mancava solo il caratteristico porticciolo con l’attracco per le barche. Alla faccia della siccità.
Detto questo, finalmente passiamo alla musica. Naturalmente ci sarebbe da scrivere tantissimo, ma nel caso dei Bad Religion diventa quasi superfluo. La band è al top da 40 anni (quarantadue, pardon). È un miracolo che si ripete nel tempo, indipendentemente dai cambi di formazione, dall’età e dagli spazi in cui suona. Da queste parti la perfezione è un’abitudine. La compagine, tra l’altro, è la stessa da una decina d’anni a questa parte. I due chitarristi Mike Dimkitch e Brian Baker (il secondo in pianta stabile dai tempi di “The Gray Race”) si alternano nel ruolo di solista, mentre Jamie Miller picchia duro senza fare troppa scena. Lo spettacolo, però, lo regalano come sempre i due fondatori.
Jay Bentley al basso continua a fare la parte del giovane del gruppo. In realtà sono tutti più o meno coetanei, ma l’aria sbarazzina ce l’ha sempre e soltanto lui. Jay si accartoccia sullo strumento e ride divertito anche quando suona pezzi non proprio comici, tipo No Control. Interagisce con il pubblico e invita chi è in cima alla balconata a scendere e a farsi sentire. È un eroe, il motivatore, l’uomo giusto sul palco. E poi ditemi un po’: chi li fa i cori più belli del punk? Ma certo, sempre lui, Jay Bentley, sudato marcio nel suo improbabile completo bianco senza maniche.
E che dire del professor Greg Graffin? L’esatto contrario di Bentley. A vent’anni era un ragazzo con la faccia da anziano. Ora che di anni ne ha quasi 60, dimostra finalmente l’età che ha. Ma a farmi impazzire è l’atteggiamento. Severo, cattedratico, occhiali neri con le lenti rettangolari. Sembra Morricone da giovane, un altro che ha sempre avuto l’aria da adulto. Graffin stringe i pugni nei momenti salienti, sgrana gli occhi e aggrotta la fronte. E poi fa spesso un gesto con la mano, come a scacciare via i pensieri cattivi. Si gira di spalle, lascia spazio ai passaggi strumentali e torna a cantare stretto nella sua polo nera. È un mito anche lui, dai, bisogna ammetterlo.
Ebbene, dalle note di questi cinque signori è sbocciato ancora una volta il il fiore dell’hardcore melodico. Un suono che ha fatto scuola (inutile ricordarlo, ma lo faccio) e che oggi, risentito dal vivo (sì, per la milionesima volta), apre i cassetti della memoria uno dietro l’altro, in rapida successione, come quando sei di fretta e cerchi le chiavi nel mobiletto all’ingresso.
La scaletta sembra un libro di storia del punk. Si parte con uno schiaffone a mano aperta: Generator. Sbam! E giù spintoni nel pogo, ancora in fase di rodaggio. Poi Recipe For Hate, benissimo. Punk Rock Song, buttata in mezzo quasi subito, forse per scaldare il pubblico, e Los Angeles is Burning, giusto per stemperare un po’. Pochi brani tratti dai dischi più recenti, spazio ai classici ovviamente (compresi I Want To Conquer the World, Do What You Want e la conclusiva Fuck Armageddon… This is Hell) e un paio di mine da togliere il fiato: Anesthesia e Come Join Us, tra le mie preferite di sempre.
No, in fin dei conti direi che non è mancato nulla. A voler fare il pignolo mi sarebbe piaciuto ascoltare Sinister Rouge. Non un cavallo di battaglia, ma uno dei brani più belli scritti dai Bad Religion negli ultimi 20 anni (e poi nel 2016 a Milano l’avevano fatta, ecco), ma è a posto così. Qualcuno mi ha detto che a fine concerto il gruppo si è intrattenuto con gli spettatori rimasti fuori dall’Alcatraz. Io, però, dopo aver schivato il Mar Caspio di sudore strizzato dalla maglietta di quel tipo, mi sono diretto subito verso un bar. Quindi non vi so dire cosa sia accaduto esattamente là fuori. Posso soltanto provare a immaginarlo. Ma ho qualche certezza: Brian Baker è rimasto in disparte, Greg Graffin non si è sottratto al dialogo e Jay Bentley, c’è da scommetterci, non ha perso l’occasione per scherzare con qualcuno.
Paolo

Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.
