Se la musica fosse una mappa, Altar dei NewDad sarebbe la rotta che segna la distorsione tra il passato e il futuro, il sogno e la realtà. Con questo secondo album, la band di Galway non fa altro che alzare la posta in gioco, rischiando il tutto per tutto e tracciando una strada dove il sacrificio non è solo un tema, ma una forza che attraversa ogni canzone. Altar non è un disco che si lascia ascoltare passivamente – è un’esperienza che coinvolge, un viaggio emotivo che ti trascina nei luoghi più profondi e oscuri dell’animo umano, ma lo fa con una luminosità nascosta, una scintilla di speranza che si accende nei momenti più impensabili. La nostalgia per la casa, la frustrazione per il non detto, la forza di andare avanti nonostante tutto: tutto questo è Altar, un’opera che gioca con le ombre e la luce come pochi dischi riescono a fare. I NewDad non sono più semplici promesse – sono una realtà in continua evoluzione, una band che ha imparato a maneggiare la sua arte con maestria. Se Madra, il loro album di debutto, li aveva portati sotto i riflettori internazionali, Altar è il loro atto di consacrazione. Un album che non solo riflette la fatica del percorso intrapreso, ma lo trasforma in qualcosa di universale: l’arte del sacrificio, inteso come crescita, come processo doloroso ma inevitabile, come il suono stesso che cerca di trovare un equilibrio tra l’inquietudine e la bellezza. Ogni traccia, ogni nota suonata, ogni parola cantata diventa un atto di espiazione. E proprio come un sacrificio su un altare, Altar non è solo un’espressione di ciò che si è perduto, ma anche di ciò che si è trovato lungo la via.
A dispetto di quanto spesso accade con i dischi di band moderne che flirtano con il genere shoegaze, Altar non è un esercizio di pura atmosfera. Non è un lavoro che si appoggia esclusivamente sull’effetto e sulla distorsione, senza preoccuparsi della sostanza. I NewDad hanno trovato una via di mezzo, una fusione perfetta tra il suono atmosferico e la struttura della canzone pop, tra il caos e l’ordine. Le atmosfere, indubbiamente dense e cinematiche, sono costruite con maestria, come una nebbia che avvolge ogni brano, ma mai in modo oppressivo. Piuttosto, questa nebbia sembra formarsi da un processo naturale, come se ogni canzone fosse nata dal desiderio di raccontare una storia, non solo di evocare un’emozione. La partenza di Altar è inesorabile: la distorsione squillante di Roobosh apre l’album con una violenza sonora che ricorda le tensioni che attraversano la vita della band. Scritta in un momento di frustrazione, Roobosh è un brano che mette subito in chiaro le intenzioni dei NewDad: questo non è un disco che si fermerà mai a ruminare sul dolore, ma che lo esplorerà con tutta la sua forza. La voce di Julie Dawson, potente e graffiante, è accompagnata da una chitarra che sembra voler sfondare ogni barriera. In un attimo, la canzone è pronta a esplodere in mille frammenti, senza mai perdere di vista la forma.
Ma subito dopo, Misery cambia completamente il registro. La chitarra si fa più soffusa, il ritmo incalzante della batteria di Fiachra Parslow segna il passo, mentre il brano scivola in un tono quasi malinconico, ma senza mai cedere alla disperazione. Misery è il primo di una serie di brani che sembrano guardare dritti negli occhi l’inquietudine senza lasciarsi sopraffare. È come se i NewDad stessero cercando di trovare una via d’uscita, di costruire una porta verso la speranza anche mentre le parole parlano di dolore e di perdite. Se l’aspetto musicale di Altar è la base su cui poggia l’intero progetto, è la voce di Julie Dawson che porta ogni traccia a una nuova dimensione. La sua voce è un mezzo che trascende il semplice cantato: è un canale emotivo, una finestra spalancata sulle sue vulnerabilità e sulla sua forza. La sua interpretazione in Mr Cold Embrace, per esempio, è di una delicatezza struggente. Ogni parola è pronunciata con una lentezza che quasi lascia respirare l’ascoltatore, mentre le atmosfere di chitarra sfociano in una nebbia emotiva che racconta di una casa lontana e di un’anima persa nel tentativo di riavvicinarsi a ciò che è stato lasciato dietro.
Ma è in momenti come Everything I Wanted che Julie Dawson davvero dimostra la sua capacità di alternare dolcezza e potenza. In questo brano, la sua voce è sospesa tra il desiderio e la rassegnazione, mentre le parole si fanno pesanti, cariche di un’aspettativa non sempre soddisfatta. L’impressione che si ha è quella di una canzone che cerca di trovare un equilibrio tra l’inquietudine e la speranza, come se il titolo stesso fosse un’invocazione verso un futuro che, sebbene irraggiungibile, resta una forza che spinge avanti. In Roobosh, la sua grinta esplode, dando vita a uno dei momenti più memorabili del disco. La rabbia che Julie esprime in quel pezzo non è mai gratuita, ma anzi sembra una liberazione, un’urgenza che spinge la band a non temere di uscire dai confini del loro solito mondo sonoro. La sua energia, il suo urlare quasi in maniera catartica, è una delle sorprese dell’album, che ribalta il concetto di “vulnerabilità” con un’esplosione di forza primordiale. Ma ciò che davvero rende Altar speciale è la sua capacità di navigare attraverso diversi stati emotivi senza mai perdere di vista la coerenza sonora. Non c’è mai il rischio di un calo d’intensità, eppure i NewDad non esagerano con la forza bruta. L’album riesce a passare con naturalezza dal fragore di Roobosh alla delicatezza sospesa di Something’s Broken, senza mai perdere il senso di continuità. Ogni canzone porta con sé un’emozione diversa, ma tutte parlano dello stesso viaggio: quello di chi si trova di fronte a un sacrificio e sa che, nonostante il dolore, ogni passo in avanti è necessario. In Entertainer, uno dei brani più pop-oriented dell’album, i NewDad dimostrano una capacità rara di mescolare melodia e sperimentazione, riuscendo a creare un pezzo che è immediatamente orecchiabile, ma che non perde la profondità che caratterizza l’intero disco. La canzone è frizzante, ma non frivola: ogni nota sembra trovare la sua giusta collocazione, ogni strumento si amalgama perfettamente con l’insieme. Il tema del sacrificio, del lasciare dietro di sé qualcosa di importante, è centrale in Altar, ma non c’è mai una totale rassegnazione. La band non si arrende mai alla nostalgia, ma la trasforma in una forza che spinge a crescere. La relazione tra Galway, la città natale della band, e Londra, dove si sono trasferiti in cerca di opportunità, è una dicotomia che si fa sentire in ogni traccia. La tensione tra il desiderio di tornare a casa e la consapevolezza che il futuro risiede lontano è palpabile. “Comfort me, save me / I’ll just keep praying” canta Julie in Mr Cold Embrace, come a dire che, nonostante tutto, la speranza resta il motore che spinge la sua musica, la sua vita.
Altar non è solo il racconto di un viaggio personale, ma la testimonianza che, in ogni sacrificio, in ogni perdita, c’è anche spazio per la crescita. I NewDad hanno saputo infondere in ogni traccia la loro esperienza, senza mai cedere alla banalità o alla tristezza gratuita. Il risultato è un album che è tanto una riflessione sulla condizione umana quanto un’opera che segna una nuova tappa nella carriera della band. Altar è un album che si fa sentire nel profondo, che non ti lascia indifferente, ma che ti accompagna anche nelle sue zone più buie con la promessa che, da quelle ombre, nascerà sempre una nuova

Smemorato sognatore incallito in continua ricerca di musica bella da colarmi nelle orecchie. Frequento questo postaccio dal 1998…
I miei 3 locali preferiti:
Bloom (Mezzago), Santeria Social Club(Milano), Circolo Gagarin (Busto Arsizio)
Il primo disco che ho comprato:
Musicasetta di “Appetite for Distruction” dei Guns & Roses
Il primo disco che avrei voluto comprare:
“Blissard” dei Motorpsycho
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Parafrasando John Fante, spesso mi sento sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Ma poi metto in cuffia un disco bello e intuisco il coraggio dell’umanità e, perchè no, mi sento anche quasi contento di farne parte.
