Dopo la sbornia fra psichedelia e jazz dello scorso “The Universe Inside”, tornano i Dream Syndicate e lo fanno tramite un album che, pur nutrendosi delle sperimentazioni del precedente, le utilizza con parsimonia e si riallaccia ai primi due lavori post reunion, quei “How Did I Find Myself Here?” e “These Times” che hanno ridonato alla storia una delle migliori band degli anni Ottanta.

Si torna dunque a una tracklist standard di dieci canzoni, tutte di durata fra i tre e i cinque minuti, e a una forma più o meno classica di canzone. Dopo un inizio sintetico e spaziale, il primo brano, Where I’ll Stand, si adagia con classe sugli stilemi da ballad alla R.E.M. con tanto di e-bow sognante. Il successivo Damian poggia su un irresistibile ed elegante riff che sarebbe potuto uscire dalla chitarra di Mark Knopfler. Maggiormente onirica la cavalcata d’atmosfera Beyond Control, che lascia poi spazio al delay riverberato di The Chronicles of You e alla ballad acustica Hard to Say Goodbye.

Si torna poi a volare con la mente grazie al viaggio imposto dall’ascolto di Every Time You Come Around. Stupisce la grinta punk di Trying to Get Over, canzone che sembra essere uscita sì dalla penna di Steve Wynn ma di quello giovane che diede vita al Paisley Underground una quarantina d’anni fa. Emozionanti il rock di Lesson Number One, così come il sound latin di My Lazy Mind. Una bomba il finale con il garage sixties di Straight Lines. The Dream Syndicate: best reunion ever?

Andrea Manenti