Classe 1975 e quella capacità assurda di saper costruire un mondo, prima ancora di saper fare un disco, fatto di luci soffuse, tra folk e pop elettronico (come è il caso di quest’ultimo album), e sentimenti sussurrati che ben si sono adattati anche alla storia tra i boschi lombardi di “Call me by your name”. E questa volta, nel suo nuovo album dal titolo “The Ascension”, Sufjan Stevens si muove abilmente tra personale e impersonale, tra ciò che c’è dentro la sua testa e smuove sangue e pensieri, e ciò che invece sta succedendo oggi in America.

Il cantautore di Detroit, che nel frattempo si è trasferito nella campagna fuori New York recuperando anche dei vecchi sintetizzatori che aveva dimenticato tra un trasloco e l’altro, dà vita a un disco fatto in casa, nel silenzio e nella solitudine più assoluti, senza struggimenti o tristezza acustica. Questo disco è una tranquilla ammissione di benessere.

Il 45enne tira le somme da persona adulta, come un qualsiasi impiegato di mezza età. “The Ascension”, musicalmente parlando, è la casa in campagna di Sufjans Stevens: una dimensione minimale, tranquilla, a tratti pop, senza mai sconvolgere o tramortire l’ascoltare. E che abilità incredibile, quella di risultare sempre interessante e trascinante, senza mai essere invadente, esattamente come ci si sente a casa propria. E’ un continuo: come stiamo dentro, e cosa c’è fuori, The Age Of Adz, un’analisi di un conflitto tra la nostra casa e la società che c’è là fuori.

Un modo decisamente atipico di fare politica, minimale ed elettronico, che quasi facciamo fatica a interpretare come tale, senza schiamazzi, senza slogan, senza imposizioni. L’America sintetizzata in un brano, America, di 12 minuti.  Sufjans Stevens, così abituato a farci entrare nella sua testa, ci introduce in un mondo dove le emozioni, anche quelle negative, sono normali, umane, e comunque bellissime. Insomma, bentornato.

Morgana Grancia