A un anno e mezzo dal fortunato esordio su lunga distanza, è uscito ieri per Sherpa Records No poetry in it, la nuova fatica di Morning Tea, il progetto solista di Mattia Frenna. Un disco difficile da etichettare, più maturo e sperimentale del precedente, che è stato presentato per la prima volta dal vivo venerdì 26 febbraio al circolo Arci L’Impegno di Milano. Abbiamo colto l’occasione per fare due chiacchiere con Mattia e lasciarci trasportare dentro il suo ultimo lavoro. Ecco cosa ne è uscito.

Mattia, già in passato descrivevi il progetto Morning Tea come “una chitarra acustica in una stanza nell’East End di Londra. Condensa sulla finestra, vento e foglie che cadono”. In No poetry in it, un album altrettanto intenso e prezioso, qualcosa è cambiato. Soprattutto nel suono, arricchito con innesti di elettronica, seppure soltanto accennata. Come ti descriveresti a più di un anno di distanza dal tuo esordio solista?

Morning Tea è ancora tutto questo, il mood di No poetry in it non è poi così diverso da quello di Nobody gets a reprieve. Malinconia e solitudine, amore e crisi esistenziali, disillusione e speranza sono tutti temi che traspaiono da entrambi i lavori. L’utilizzo dell’elettronica è stato solo uno stimolo a livello creativo, un mezzo. Oltretutto, ho gusti musicali molto vari e non vorrei legare troppo la mia figura allo stereotipo del cantautore barbuto con la camicia a quadri. Anche perché non ho la barba. In definitiva, volevo sperimentare, spaziando un po’ attraverso tutti i generi che mi piacciono e senza badare troppo alle convenzioni. Perciò direi che Morning Tea è ancora una chitarra acustica in una stanza, Morning Tea sono ancora io. Indosso soltanto “un vestito nuovo”.

Fra le tracce che mi hanno più colpito c’è sicuramente Florence (I miss something), di stampo dreampop, se non addirittura shoegaze. Si tratta di una svolta piacevolmente spiazzante rispetto al folk dilatato di un tempo. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento? E perché Firenze?

Come dicevo, l’idea di base per questo disco era quella di sperimentare. Florence è sicuramente l’episodio in cui mi sono spinto più lontano nella mia ricerca. Il pezzo è nato in un pomeriggio d’inverno, mi trovavo a Firenze da alcuni parenti e non avendo nulla da fare, ho cominciato a giocherellare un po’ al piano. Dopo qualche ora ero lì che suonavo e cantavo il pezzo.
È una delle canzoni più sentite e sincere che abbia mai scritto. Liriche ridotte all’osso per esprimere un sentimento tanto semplice quanto prepotente. Per quanto riguarda la produzione, volevo che il brano suonasse come un incontro tra gli Spiritualized di Ladies and gentlemen we are floating in space e i Mogwai di Rock Action.

Morning_Tea_NoPoetryInIt

No poetry in it, nel complesso, sembra riprendere lo stesso concetto di placida rassegnazione espresso in Nobody gets a reprieve. Eppure nella tua musica e nei tuoi testi la poesia c’è, eccome. Celebrare lo sconforto per l’assenza di valori alti può essere un’arma per sconfiggerlo?

No non direi, ma la questione non riguarda lo sconforto per l’assenza di valori alti. In Nobody gets a reprieve trattavo temi comuni all’intero genere umano (amore, battaglie interiori, soddisfazione), temi che “non danno tregua a nessuno”. No poetry in it conserva questa caratteristica di universalità, ma ha più a che fare con una sorta di visione comune. In questo caso l’accento è posto sulla tendenza umana a cercare un disegno superiore anche nelle cose più banali, una sorta di finalità o motivazione profonda e impenetrabile. La “poesia”, in senso lato. Ma questa poesia non c’è, non esiste. La realtà è sterile di per sé e siamo noi che con la nostra soggettività, sensibilità e cultura le diamo un senso. Ognuno di noi ha una visione filtrata dal proprio vissuto; ognuno di noi aggiunge alla realtà la poesia, quel sentimento necessario per dare un senso alla nostra vita. Dobbiamo credere in qualcosa, non è importante che quel qualcosa esista per davvero.

In una stagione in cui la musica indipendente italiana è tornata con successo a parlare la nostra lingua, tu continui a preferire l’inglese e una scrittura più tradizionale. Una scelta di campo o la consapevolezza che altrimenti la tua musica suonerebbe necessariamente diversa?

Beh, la musica indipendente italiana di successo (come anche quella mainstream) ha sempre parlato la nostra lingua. Il fatto è che io lo faccio perché mi piace, e lo faccio così perché così mi sento di fare. Sicuramente poi la mia musica suonerebbe diversa, la parola è suono, se cambi suono, cambi musica. Non inizierei a scrivere in italiano per piacere di più, ma lo farei sicuramente se mi andasse di farlo; per ora l’inglese mi sembra la lingua più adatta al mio genere.

Associo No poetry in it al periodo di passaggio tra l’inverno e la primavera. Una guerra tra il freddo che è ancora pungente e l’odore del risveglio che inizia a girare nell’aria. Nuovi amori, ma anche vecchie amicizie. Sguardo al futuro, con la certezza dei rapporti costruiti nel passato. Quanto contano i ricordi e quanto le prospettive future nella scrittura delle tue canzoni?

Bè in generale quando scrivo parlo del presente. Scrivo perché ho qualcosa da dire, in quel momento, qualcosa che deve uscire e prendere forma. Il presente è inevitabilmente influenzato dal
passato e dal futuro, non si può prescindere da ciò che è stato e nemmeno da ciò che sarà, perché passato e futuro danno vita al presente così come lo viviamo. Quanto contano i ricordi e le prospettive future nella scrittura? direi moltissimo.

A cura di Paolo Ferrari