Non tutti forse lo hanno notato ma, circa un mese fa, nei negozi di dischi ha fatto capolino “Let The Dancers Inherit The Party”, ultima fatica dei British Sea Power, band post-punk originaria di Brighton. Nel Belpaese, infatti, il quartetto anglosassone non ha mai goduto di una straordinaria attenzione. Noi di indiezone.it abbiamo cercato di rimediare a questa imperdonabile disattenzione e abbiamo fatto una lunga chiaccherata al telefono con Jan Scott Wilkinson, leader e frontman della band, per farci raccontare tutti i retroscena del loro ultimo capitolo discografico.

La copertina di “Let the dancers inherit the party”
Jan, “Let The Dancers Inherit The Party” è il titolo del vostro nuovo album, e arriva a quattro anni di distanza dal precedente. Cos’è cambiato nelle vostre vite negli ultimi quattro anni?
Beh, direi che innanzitutto mi sono sposato, ed è una cosa di cui sono molto felice! Per il resto, però, le cose non è che siano andate altrettanto bene. Avrei voluto prendermi del tempo libero per andare in vacanza, ma siamo stati molto impegnati con il progetto per il nuovo disco. Vedremo di rimediare al più presto.
Dopo “Machinaries of Joy”, tra l’altro, avete pubblicato anche due colonne sonore di altrettanti film. Come mai vi siete dedicati al cinema? È stato un caso o una scelta?
Le colonne sonore sono spesso dei casi fortunati. A volte capita che ti chiedano di utilizzare una tua canzone per un documentario o per un film. Poi, se il film ti piace e hai un po’ di tempo, finisci per proporre al regista di scrivere l’intera colonna sonora! È bello trovarsi di fronte a delle sfide che non ti aspettavi. Normalmente succede tutto molto in fretta, almeno così è stato per noi. Poi ci siamo dedicati anche a un progetto per il quale abbiamo riarrangiato alcune delle nostre canzoni assieme a brass band inglesi. In entrambi i casi ci siamo ritrovati a lavorare ad arrangiamenti complessi, i brani richiedono più cura e diventano più lunghi, sperimentali e d’atmosfera. Alla fine mi sono reso conto che, sebbene mi piaccia la musica strana e sperimentale, apprezzo anche la musica pop diretta, quella con i riff, le strutture brevi.
Queste esperienze hanno dunque influenzato la fase creativa del nuovo album?
Sì, in qualche modo penso di sì. Abbiamo avuto un po’ di tempo per riflettere sulle cose. Non penso ci sia stata un’inversione di rotta o un enorme cambiamento. Sì, qualcosa è cambiato. Questo disco è un po’ meno variegato. Ci siamo concentrati su una cosa e abbiamo cercato di farla bene, piuttosto che provare ad abbracciare più generi musicali e inserirli tutti nello stesso album. Penso sia questa la strada da percorrere, preferisco fare un album come questo, che è più allegro ed ottimistico e che ad un primo ascolto è più diretto. Poi magari il prossimo sarà completamente differente e daremo sfogo alla nostra follia con brani strumentali pazzi. Mmm, non so se tutto questo abbia senso, in realtà [ride].
No, capisco bene. Direi, infatti, che dal punto di vista musicale “Let Dancers Inherit The Party” è un album potente e diretto. Se tu dovessi descriverlo con tre aggettivi, quali utilizzeresti?
Internazionale. Emotivamente forte. [Pausa riflessiva] Sono tre parole, ma solo due aggettivi in realtà. Va bene lo stesso? [ride]
Sì, mi sembra esaustivo.
Per quanto riguarda le parole, invece, i testi spaziano dalla manipolazione dei media a poetiche descrizioni di cieli stellati. C’è, però, un tema principale, un filo conduttore?
Beh, penso che tutti sappiano che sono successe molte cose in questo ultimo periodo. Cose piuttosto spaventose. Le persone sono molto confuse ed è tutto molto caotico. Tendiamo tutti a riunirci in piccoli gruppi e a litigare tra di noi. Sembra che, di questi tempi, le persone siano mentalmente un po’ chiuse ed è un peccato. Quando abbiamo messo su il gruppo le cose sembravano andar meglio. Adesso abbiamo un presidente un po’ particolare, c’è la Brexit, c’è la crisi finanziaria. È dura fare un album, se vuoi fare un album moderno. E noi volevamo proprio che il nostro lo fosse. È difficile provare ad ignorare tutto quello che sta succedendo e cercare di lasciarselo alle spalle. Comunque non penso che il disco sia politicamente impegnato o che in qualche modo si ribelli a questa situazione, ma che piuttosto accetti il fatto che tutte queste cose facciano parte della nostra vita. Allo stesso tempo, comunque, tratta anche degli aspetti della vita di tutti i giorni, come fare la spesa, pagare le bollette o andare al lavoro. Ero molto interessato nel vedere come le persone si relazionassero con questo tipo di cose e ho cercato di mostrarmi disponibile anche con chi la pensa diversamente da me. Il disco riunisce appunto tante prospettive, tra loro opposte. Siamo una band internazionale, ci piacciono i paesi stranieri e ci piace mischiare le lingue, il cibo, le culture… Ho voluto inserire un po’ di tutto questo all’interno del disco per dire che il mondo è spaventoso, oggigiorno, e che è giusto interessarsene, ma la vita non è solo questo. Le persone che si incontrano per la strada sono spesso brave persone, non bisogna dimenticarlo solo perché i giornali sono pieni di storie spaventose.
Parlando di etichette, invece, dopo una lunga e prolifica collaborazione con la Rough Trade, il nuovo album è stato pubblicato dalla Caroline International, con la licenza della Golden Chariot, l’etichetta di vostra proprietà. Il vostro rapporto con la Rough Trade è dunque definitivamente finito?
No, ci siamo lasciati in buoni rapporti. È stato triste, in un certo senso. Non abbiamo litigato, comunque, se è quello che intendi. Sono sempre stati alla mano, sono persone in gamba che ti lasciano fare le cose a modo tuo. In un certo senso volevamo solo cambiare. Sai, dopo un po’ forse diventa un’abitudine e cominci ad adagiarti sugli allori. Abbiamo pubblicato un paio di cose per conto nostro con la Golden Chariot ed è andata molto bene, ma il pensiero di gestire un intero album con tutto quello che comporta era piuttosto impegnativo. Beh, in realtà la realizzazione e il momento in cui cerchi i finanziamenti è molto divertente. Quando però devi venderlo, stamparlo, avere a che fare con i fornitori, con la stampa e tenere la contabilità, diventa tutto più complicato. Alla fine siamo artisti, non imprenditori. Quindi abbiamo affidato questi aspetti alla Caroline, che finora è stata davvero fantastica. Speriamo di poter continuare così e poi chi lo sa, un giorno potremmo anche tornare a collaborare con la Rough Trade.
A proposito di questioni economiche, per finanziare l’album avete fatto una campagna di crowdfunding. Perché avete scelto questa strada? Ho visto, tra l’altro, che fra le cose che i fan potevano scegliere di acquistare c’era un tatuaggio che sarebbe servito come pass free-entry per tutti i vostri futuri concerti. Come vi è venuta in mente questa idea fantastica?
So che il crowdfunding è una cosa normale, oggigiorno, ma per noi è stata un’esperienza nuova e non sapevamo se avrebbe funzionato. Ci sembrava esagerato chiedere alle persone dei soldi per una cosa che non era ancora stata prodotta e che non sapevano nemmeno quando avrebbero potuto averla. Parlavamo insieme di tutto questo e ci scherzavamo su in studio. È lì che è venuta fuori l’idea di fare un pass che sarebbe valso per tutti i nostri concerti, e ci siamo detti, “Perché non fare un tatuaggio?”. Abbiamo pensato che nessuno lo avrebbe acquistato, ma lo abbiamo voluto fare lo stesso. Poi, prima che ce ne potessimo rendere conto, le persone hanno iniziato a contattarci e a spedirci i soldi. Ed era tutto vero! È stato fantastico. Abbiamo iniziato a pensare “Per quanto dovremmo restare uniti perché tutto questo abbia un senso?”. Pensa se tu pagassi per avere un lifetime pass e la band l’anno dopo si scogliesse! [ride]. Penso che ti girerebbero parecchio le scatole.

British Sea Power
E i tatuaggi li hai disegnati tu?
Alla fine abbiamo fatto un po’ di confusione. Avevamo proposto alcune cose, ma le persone le hanno un po’ modificate. C’è chi ha aggiunto una scritta, chi ha voluto un passerotto. Un ragazzo si è fatto tatuare una stella nera perché è un fan sfegatato di David Bowie. Alla fine sono venute fuori cose carine. Non siamo stati molto restrittivi, ci sembrava già tanto che alcune persone avessero accettato di tatuarsi per noi e che ci apprezzassero a tal punto da pagare in anticipo per poter venire a sentirci ogni volta che suoniamo. Non volevamo che avessero dei tatuaggi che poi avrebbero odiato!
Le scritte sulla copertina del disco, invece, riprendono la tipografia di Kurt Schwitters. So che è un artista che è stato di grande ispirazione per alcuni di voi, giusto?
Sì, è vero. È un amore che si è sviluppato con il tempo. Quando ci siamo trasferiti a Brighton, abbiamo avuto la possibilità, grazie a Paul, di organizzare una serata al mese al club Sea Power. Eravamo soliti partire con una rappresentazione introduttiva e avevamo trovato questa poesia fuori di testa di Kurt Schwitters che ci sembrava far particolarmente al caso nostro. Era piena di strani rumori onomatopeici, una cosa in stile dada/surrealista, emotivamente molto coinvolgente. Funzionava molto bene, e quello è stato il nostro primo contatto con Schwiters. Lui fuggì dalla Germania quando i nazisti iniziarono a condannare alcune forme d’arte come “degenerate”, a liberarsi dell’arte moderna e delle persone con un quoziente intellettivo superiore alla media. E così lui scappò e finì nel Lake District, che è la zona dove siamo cresciuti. Realizzò quest’opera d’arte intitolata “Merzbau” e una serie di innovative sculture all’avanguardia. Siamo andati a vedere la mostra, ci è piaciuta molto, e ci siamo messi in contatto con il ragazzo che l’ha organizzata per fare una collaborazione. La mia passione per Schwitters si è sviluppata gradualmente. Più approfondivo i suoi lavori, più me ne innamoravo. In un certo senso è stato uno dei primi artisti a fare collage. Ha avuto delle idee incredibili. Comunque, alla fine è successo tutto per caso. Dovevo scegliere una copertina per il disco, mi rimaneva solo una settimana di tempo e stavo aspettando che arrivasse una buona idea. Avevo avuto solo tre settimane per pensarci e, nel mentre, stavamo ancora finendo di registrare. Mi sono occupato io stesso della maggior parte delle nostre copertine. Questa volta, però, mi ero fissato sui lavori di Peter Saville. Sono un suo grande fan, ha fatto le copertine per i Joy Division e tante altre cose interessanti. Stavo guardando delle lezioni in rete per farmi venire in mente qualche idea e sono finito a vedere la lezione sulla tipografia, che avevo anche studiato all’università. C’erano un sacco di belle immagini, ma ce n’è stata una che mi ha particolarmente colpito. Non sapevo cosa fosse, non l’avevo riconosciuta, ma ho pensato, “quella dev’essere la copertina del disco”. Sono andato a cercare cosa fosse ed era un’opera di Schwitters! Ecco, ho pensato, era proprio quel che cercavo, è fantastica, devo usare questa. Ho scoperto che il font utilizzato in quell’immagine veniva definito da Schwitters come un vero e proprio carattere musicale. Ci sono ad esempio tre “E” diverse tra loro, ed ognuna rappresenta un suono differente. Mi piaceva molto per come era bizzarro e sbilenco. Ecco, è questa la storia dietro la copertina.
Ecco, parlando di significati nascosti, sappiamo che i vostri testi nascondono parecchie citazioni. Ce n’è qualcuna nel nuovo album?
No, non molte. Abbiamo cercato di lasciarci alle spalle questa cosa che eravamo soliti fare. Il nome dell’album fa riferimento al titolo di una poesia di uno scrittore scozzese che si intitola proprio “Let The Dancers Inherit The Party”. L’ho utilizzata perché mi piace un sacco. Lui è un artista che adoro, è uno dei miei artisti preferiti. Non lo capisco perfettamente, ma mi affascina molto! [ride] È molto strano, ha un giardino in Scozia, dove ha un sacco di sculture stranissime. Leggevo le sue poesie e ho pensato che riassumessero quello che cercavamo di comunicare con il nostro disco. La poesia parla di persone che vanno ad una festa e si mettono a parlare di questioni importanti, si ubriacano e iniziano a litigare. Poi si guardano attorno e vedono altre persone che ballano e che si divertono. Decidono dunque di abbandonare il loro battibecco e di unirsi a loro. Penso che la morale sia che è solo una questione di scelte, bisogna saper scegliere il momento giusto per fare determinate cose. Ci sono momenti in cui ti devi divertire, altri in cui bisogna essere seri. A volte anche entrambe le cose allo stesso tempo.
C’è per caso una band, un artista o una figura storica che ha particolarmente influenzato la scrittura del disco? Sto pensando, ad esempio, ad Ivy Lee o a St. Jerome, che hanno dato il titolo a due brani dell’album.
Sì, diciamo che il pezzo tratta relativamente di Ivy Lee, che per me in realtà non è una figura molto positiva. È il padre delle pubbliche relazioni, del raggiro e della manipolazione, ovviamente in ambito pubblicitario. Per quanto riguarda la scrittura mi sono principalmente ispirato a Kurt Schwitters, che faceva collage, a William Borroughs e a David Bowie, tutti artisti che utilizzavano la tecnica del collage, sia che si trattasse di parole, idee o modi di agire, in studio o nel modo di pensare la musica. Questa è la tecnica che sto cercando di adottare, quella di radunare idee che qualcuno ha espresso e di metterle insieme. Sembra una cosa semplice, ma non lo è, richiede un sacco di tempo. Sembra facile quando lo vedi fare a qualcun altro! È difficile farlo e riuscire anche a dargli un significato.
Qual è l’ultimo libro che hai letto?
Mmm… Ho comprato l’ultimo libro di Delillo, ma non l’ho ancora finito. Mi piacciono molto anche le ultime cose dello scrittore francese Michel Houellebecq, penso sia un ottimo scrittore. Ah, anche il libro sulla vita di Mark E. Smith.
E l’ultimo disco che hai comprato?
Tecnicamente l’ultimo disco che ho comprato è stato “The Musical Version of the War of The Worlds” di Jeff Wayne. Dico tecnicamente, perché in realtà ne avevo acquistato un altro, che però era danneggiato, e allora l’ho sostituito con quello di Wayne [ride].
Siete rinomati per suonare in location stravaganti. Lo farete di nuovo? Qual è il posto più strano dove vorresti tenere un concerto?
Penso che il posto più strano dove potremmo finire a suonare sia a Glastonbury come headliner [ride]. Sì, non succederà mai. No, diciamo che se qualcuno ci chiede di andare a suonare in un posto diverso da un club o un palazzetto, lo facciamo con molto piacere. Abbiamo suonato in parecchi posti strani ed è una cosa che ci piace. Non abbiamo particolari ambizioni per quanto riguarda le location, suoniamo volentieri e accettiamo quasi tutte le proposte che riceviamo.
Avete appena annunciato il tour europeo, ma l’Italia non compare ancora tra le date. Ci sarà la possibilità per i vostri fan italiani di vedervi suonare dal vivo nel nostro paese?
Spero di sì! Ci sono un sacco di città dove vorremmo fare tappa, ma non abbiamo un vasto bacino di fan in tutta Europa, quindi a volte diventa difficile organizzare date in alcuni paesi. Spero che in qualche modo potremmo riuscire a passare dall’Italia!
Lo speriamo anche noi e, in tal caso, saremo sicuramente tra il pubblico. A presto, Scott, grazie mille per il tuo tempo.
Grazie a te, è stato un piacere!
A cura di Alessandro Franchi
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Mi racconto in una frase:
Gran rallentatore di eventi, musicalmente onnivoro, ma con un debole per l’orchestra del maestro Mario Canello.
I miei tre locali preferiti per ascoltare musica:
Cox 18 (Milano), Hana-Bi (Marina di Ravenna), Bloom (Mezzago, MB)
Il primo disco che ho comprato:
Guns’n’Roses – Lies
Il primo disco che avrei voluto comprare:
Sonic Youth – Daydream Nation
Una cosa di me che penso sia inutile che voi sappiate ma ve la racconto lo stesso:
Ho scritto la mia prima recensione nel 1994 con una macchina da scrivere. Il disco era “Monster” dei Rem. Non l’ha mai letta nessuno.