Milano, 18 marzo 2025

Adoro lo sguardo di chi sta per buttarsi. Di primo acchito ci vedi la determinazione dell’uomo pronto ad affrontare una prova. Eppure, se osservi bene, traspare anche la sua fragilità, la richiesta di un patto di fiducia. È quello che si legge negli occhi di Franz Valente quando a fine concerto, arrampicato sulla transenna, si lascia andare sulla folla in uno stage diving liberatorio. Gli bastano pochi secondi per sentire sulla pelle l’abbraccio del pubblico. Il suggello del rinnovato connubio tra Il Teatro degli Orrori e la sua gente. Il legame, per la verità, non era mai venuto meno. Ma dopo dieci anni senza nemmeno sfiorarsi, andava rievocato per bene.

Il tuffo del batterista, l’endkadenz per dirla con i Verdena, è l’ultima immagine di una serata dal sapore antologico. Più di due ore di musica e invettive, che ancora ribollono nelle viscere. Fuori dall’Alcatraz provo a riavvolgere il nastro. Le diapositive sono ancora tutte lì, tatuate in testa. Pierpaolo Capovilla compare spesso. Vedo la sua sagoma in controluce, accartocciata sul microfono. Esplodono le note di Vita Mia, Dio Mio, E Lei Venne: il tris al tritolo che apre “Dell’impero delle tenebre”, anno 2007. L’impatto è devastante. Brillano le lacrime di chi si ritrova ancora qui, uguale a ieri, ma con qualche capello in meno.

Il riff di Due, fra i miei preferiti di quegli anni, raschia i ricordi e arrossa la gola. Ah, che bello urlare insieme ad altre mille persone. Una ragazza si presenta nel pogo sventolando due bicchieri di birra appena spillata. Pioggia di Heineken in tre, due, uno. “Lo sapevo che andava a finire così, dio mio!”.

C’è Capovilla piantato sul ciglio del palco, avvolto da tutta la sua autentica teatralità, il suo spessore. Incute un certo timore, come un felino che adocchia la sua preda, la mano che scosta il ciuffo per vederci meglio.

Non dice mai una parola fuori posto, Capovilla. E scopre, con rabbia e disinganno, che in dieci anni non è cambiato nulla. Quei suoi testi così taglienti e poetici, roba che da queste parti ha fatto scuola, sono ancora tremendamente attuali. «Questa mattina, mentre mi facevo la prima moka e fumavo le prime due o tre sigarette – racconta dal palco – ho acceso la radio e ho scoperto che la tregua, a Gaza, è finita». C’è la politica, tanta politica. C’è il coro “Palestina libera”, che parte spontaneo dalla platea, e quella Lettera Aperta al Partito Democratico ancora tutta da cantare.

Giulio Ragno Favero resta immobile sulla sinistra. È un baluardo. Uno scoglio frangiflutti. Il suo basso dialoga a meraviglia con la batteria. Si muove in base alle esigenze: affonda il tridente quando c’è da attaccare e fa scudo con il corpo quando il mare va in tempesta. Ha l’aria del gigante buono capace di regolare il caos. E proprio nel caos sta l’unica differenza fra passato e presente. Un tempo si aveva l’impressione che tutto potesse accadere. Un concerto de Il Teatro degli Orrori si trasformava spesso in un tumulto. Ma non si potevano fare calcoli, andava come andava. Questa sera, invece, è ancora uno splendido caos, ma più controllato. E non è necessariamente un male. Anzi, si scorgono meglio le doti tecniche.

A proposito. C’è un fermo immagine di Gionata Mirai ancora lì da proiettare. È lui inarcato all’indietro: una parentesi tonda con la camicia e i pantaloni scuri, la chitarra mancina spanciata via con un colpo di bacino, come a spingere il più lontano possibile uno dei suoi tipici intarsi noise. In giro, di musicisti così, ce ne sono pochi. È preciso, mai scontato. La firma al granito scolpita nel sound del Teatro.

La scaletta è ricca, che ve lo dico a fare: Majakovskij (qui tutti in rigoroso silenzio), Non Vedo l’Ora (qui invece si balla. Scomposti, ma si balla). Su Compagna Teresa vado in apnea, mi rifugio in un angolo. A un certo punto si apre pure un circle pit. Non ce la faccio, resto nell’angolo. C’è anche A Sangue Freddo, questa volta è impossibile restare fermi. In mezzo ci sono le ballate, chiamiamole così: La Canzone di Tom, struggente anche nella presentazione, e naturalmente Direzioni Diverse. Finale non previsto con Maria Maddalena e poi un caloroso saluto che sa di arrivederci.

Ecco, sono ancora all’uscita, fra poco rientro a casa. Ripenso alla frase di un amico incontrato prima di entrare. “In questo tour li ho già visti, sono incredibili”, mi aveva detto. Vorrei incrociarlo di nuovo per dirgli che sì, aveva ragione. E il merito va anche all’onestà della band. Perché quella de Il Teatro degli Orrori non è stata un’autocelebrazione, ma un semplice ritorno. Altrimenti avrebbe fatto tutto un altro effetto. Di certo meno genuino.

Allora diciamolo, dopotutto è la canzone che dà il titolo al tour: “Mai dire mai”. Sarà pure un frase stupida, come si dice. Ma questa sera abbiamo ritrovato almeno una piccola, forse una grande, parte di noi.

Paolo

 

Ph: Mariapia Albanese