“Lunazione” è il terzo capitolo della storia degli Heisenberg, uscito a sette anni di distanza da “Caporetto”. La band, formata nella Roma punk hardcore del 2010, è composta da Matteo Cellini (voce), Massimo Cardellicchio (chitarra), Giorgio Vallone (chitarra), Stefano Tamorri (basso) e Giovanni Lista (batteria).

L’evoluzione del quintetto è evidente rispetto a “Immaginarie Linee Matematiche Tra Cielo E Terra”, prime prove di matrice screamo ed emocore. Oggi, senza dimenticare ma anzi rinvigorendo le propie radici post-hc, gli Heisenberg si spingono verso territori musicali più complessi e ardui, quelli del noise e del post-rock, e tornano con un sound più solido e compatto; duro come il marmo, nero come la pece, incandescente e ricco di screziature.

“Lunazione” è un concept: il titolo si riferisce al periodo di tempo durante il quale la Luna, vista dalla Terra, attraversa tutte le sue modificazioni e si ricongiunge al Sole. Una metafora dell’esistenza. Le influenze della band sono pacifiche: da una parte la voce di Emidio Clementi e gli arpeggi di Egle Sommacal, dall’altra un ventaglio di formazioni che hanno fatto la storia della musica indipendente italiana:
gli slanci dei Raein e La Quiete, le sfuriate dei Nerorgasmo, per concludere con certi suoni dell’ondata emo statunitense che vedeva Mineral e American Football a tenere alto il vessillo del Midwest.

Si comincia con la graffiante Nera Era, una cavalcata di chitarre che non dà tregua, la descrizione di un naufragio spaziale come deriva dell’anima e del destino. La tensione si scioglie in un finale liquido, scuro e avvolgente. Lo spoken aggressivo riporta alla mente le fiammate più intense e riuscite del Teatro Degli Orrori. Poi ci sono le atmosfere più dilatate di Hringvegur, dove si alternano momenti in cui splende accecante la stella polare dei Massimo Volume a deflagrazioni post-hardcore incontenibili. Un’altra dimostrazione di potenza controllata è quella di Il Destino Non Tradisce, dove i testi giocano con citazioni di Battiato e CSI e le fiamme tetre divampano improvvise.

Nel Nome Del prende una direzione math-rock, con delle parti quasi “cantate” e un testo a suo modo ottimista e beneaugurante; le sue bordate annichilenti ci accompagnano fino alla chiusura che sembra implodere. Sezione ritmica sugli scudi nell’ultima traccia A Chi
Mise Ricordi, batteria che si staglia e chitarre angolari tracciano traiettorie impervie alla Shellac. Noi non siamo quello che possediamo ma ciò che immaginiamo/ noi non siamo, immaginiamo è il mantra che ci accompagna sfiniti e felici alla fine di queste cinque tracce dense. Musica muscolare, catartica, poderosa. Perché va bene “la musica leggera, anzi leggerissima”, ma a volte il cuore e le orecchie esigono una
spietata, urgente, meravigliosa pesantezza.

Andrea Bentivoglio